rosso veneziano

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CAPITOLO PRIMO

IL PALAZZO TRAFORATO

Seguivamo una via che era quella dell’acqua. Dalla gondola della garitta di San Tomà, discendevamo il Canal Grande e, seduti su comodi sedili, vedevamo sfilare le facciate dei palazzi. Da quella strada senza asfalto, né pietra, mio fratello e io godevamo di uno spettacolo notevole. Venezia, ho sempre pensato, è una città di cui si può fruire anche nelle maniere più scontate. Nonostante ormai Piazza San Marco appaia in ogni sorta di quadro mediocre o cartolina, per cento anni si potrebbe arrivare in quella piazza e stupirsene, senza alcuna riserva, sempre e ogni volta con la stessa intensità. Esattamente come succede con gli amori veri, quelli inesauribili.

Il nostro arrivo in città aveva entusiasmato Luchino che si era svegliato dopo la prima notte particolarmente allegro. La scelta di prendere la gondola era stata sua. Dopo avere appurato che la giornata era splendida e che il sole abbagliava in un cielo di autunno ancora limpido e mite, eravamo scesi a far colazione sulla terrazza dell’Hotel Danieli dove avevamo preso per tre giorni un comodo appartamento con due stanze da letto. Il ristorante si affacciava su una veduta eccezionale e dopo poco che guardavo le sagome delle isole nella laguna e la loro nebulosità incantata, ero diventata di ottimo umore. Bastarono le guglie di Palazzo Ducale, un tiepido venticello e l’ottimo caffè del Doge per farmi dimenticare le fatiche del viaggio.

Quando mi guardai allo specchio della camera vidi con sollievo che non mi sbagliavo, avevo recuperato tutta la freschezza; l’incarnato era tornato luminoso e il biondo dei capelli lucente. Per quanto mi riguardava, non reggevo la stanchezza come Luchino. Per lui le scomodità e i lunghi spostamenti erano un fastidio momentaneo e non lo compromettevano quasi mai nel fisico. Godeva di una salute di ferro che non veniva turbata neanche dalle lunghe malinconie alle quali sovente cedeva. Aveva una natura anfibia, allo stesso tempo aerea e acquatica, a cui non importava molto della terra e che, sulla terra, sembrava galleggiarvi. Avrei desiderato anch’io quel tipo di resistenza, ma ero una giovane donna troppo sensibile e il mio corpo si affaticava facilmente. Ma quando Luchino era animato in quel modo dal desiderio di scoperta – in questo caso di una nuova città – a me bastava poco per unirmi a lui e farmi contagiare dall’euforia.

Uscimmo dall’Hotel. Il sole rendeva quasi bianca la fondamenta di Riva degli Schiavoni, e bianche, anche, le facciate delle case, creando un riverbero accecante. Mi riparai gli occhi con le mani. Luchino mi prese con dolcezza sotto braccio e girammo a destra, lasciandoci alle spalle il mare. Ci inoltrammo quindi nelle calli, un po’ alla cieca, come lui sosteneva si dovesse fare.

«Dobbiamo perderci, mia cara sorella. Sono sicuro sia per questo che Venezia è stata costruita. Troveremo quello che cerchiamo senza nemmeno accorgercene.» disse, non appena posò, con sicurezza, il primo piede in strada.

Non avevamo vincoli, nessun orario da rispettare ed eravamo davvero nella posizione di permetterci un lusso come quello del vagare. Gli sorrisi e lui mi strizzò l’occhio. Ci cacciammo nelle gole nere dei sottoportici, sbucammo nelle corti, trovammo pertugi di altre callette per poi venire fuori in campi ariosi. Una sensazione di assoluta libertà ci accompagnava, prendeva forma e diventava esplorazione viva.

Alzai il dito e indicai a Luchino una casetta bizantina, lui mi portò a vedere da vicino una vera da pozzo tutta fiorita e poi entrammo di comune accordo a visitare una chiesa barocca, in cui io pregai e accesi una candela. Poco dopo arrivammo alla garrita e Luchino diede al gondoliere una moneta.

«Buonasera, Signori. Stranieri?» Probabile la facesse spesso quella domanda, per capire come comportarsi anche se, pensai, stranieri un po’ lo sembravamo, biondi entrambi, la pelle e gli occhi chiari, avremmo potuto essere benissimo tedeschi.

«Di Roma.» fece Luchino.

«Ah! Novelli sposi nella città dell’amore.» rispose lui e mi porse, con un gesto teatrale, la mano per salire.

Noi ci guardammo complici e tacemmo. Cosa ci importava? Potevano pure scambiarci per marito e moglie. La sensazione di essere lontani da chi ci conosceva, lontani da nostra madre e lontani da casa era così preziosa che ci guardammo bene dallo svelarci oltre. Il bruno gondoliere intanto, assorto dal remare, sembrava già essersi dimenticato la nostra conversazione. Prendemmo a navigare. La fila dei palazzi, con finestre decorate a tal punto da non avere bisogno di fiori, veniva ogni tanto interrotta da un vuoto inaspettato, lo sbocco di un campo davanti a una chiesa di mattoni. Schizzi di vegetazione e oleandri si mischiavano all’architettura dando l’impressione di una scenografia teatrale, di un magnifico inganno dove tutto tramava per un unico fine; la bellezza. Mentre le altre città cambiavano con l’incedere del nuovo secolo e si cominciavano a vedere, per strada, passare le prime automobili con i loro motori fragorosi, a Venezia tutto sembrava organizzato per rimanere fermo nel passato o per proteggersi il più possibile dallo scorrere del tempo. I secoli passati conversavano tra loro, escludendo il Novecento giacché troppo giovane e immaturo.

Ero rapita, completamente rapita, da quello spettacolo e immaginai quanto sarebbe stato rilassante vivere sull’acqua, poterci camminare sopra senza sentire il peso del corpo, e andare a trovare gli amici che abitavano sul Canal Grande, senza avere bisogno di passare per le retrovie. Poi fantasticai che avremmo abitato anche noi lì, Luchino ed io, e tutti ci avrebbero conosciuti e amati perché saremmo stati i ragazzi biondi che sapevano camminare sull’acqua.

Solo a un certo punto, distratta com’ero, mi accorsi dell’espressione che intanto si era disegnata sul volto di mio fratello. Era diventato all’improvviso pallido, gli occhi sgranati puntavano il lato sinistro del Canale.

«Rallenti. Rallenti, per favore. Cos’è quello?» disse indicando un punto al gondoliere, «Qual è il nome di quel palazzo? »

Girandomi, vidi dove si era posata l’attenzione di Luchino; un solo edificio spezzava il ritmo, quasi musicale, dei colori vivaci delle facciate, una macchia grigia, scrostata sul davanti e con volte che facevano intravedere un fondo nero. I trafori, gli archi e i capitelli si erano anneriti ma qualcosa ancora, sotto il sole, continuava a luccicare. L’intera costruzione sembrava si reggesse appena sulle fondamenta ormai decrepite. Mi venne in mente una vecchia, tutta ingobbita, in mezzo a giovani abbigliate per un ballo.

«È la Ca’ d’Ambra, Signore.»

«La Ca’ d’Ambra…» riprese come in trance mio fratello, e nei suoi occhi - io che lo conoscevo meglio di chiunque altro - indovinai il riflesso di una visione repentina. «Si avvicini, vorrei vederla meglio. Perché mai è ridotta in quelle condizioni?»

«È abbandonata. Non ci abita più nessuno.»

«Abbandonata. Quindi presumo in vendita?»

«Abbandonata e basta. È quello che so io. La Ca’ d’Ambra non la abita nessuno, Signore.» Il gondoliere, prima così fiero e deciso, abbassò lo sguardo.

«Si avvicini, ho detto.» lo riprese mio fratello e quello, a malincuore, girò la gondola e prese a remare. Poi Luchino si voltò dalla mia parte e mi prese le mani in grembo. «Iole, hai mai visto una tale meraviglia?»

La guardai nuovamente, e capii che non stava parlando delle vecchie mura del palazzo, ma di qualcosa che non si poteva ancora vedere. «Ha senza dubbio bisogno di una sistemata.» risposi.

«Ne ha tutta l’aria!» disse lui alzandosi e saltando in piedi, per poi allungare la gamba e salire sui gradini algosi della calle confinante col palazzo. Alzai l’orlo del vestito e, aggrappandomi al suo braccio, lo seguii.

«Così scendete qui? Volete che vi aspetti?» La faccia del gondoliere si era fatta torva, la bocca serrata in un’espressione di disapprovazione quasi paterna.

«Non è necessario. Vada pure.» rispose mio fratello, tirando fuori dal taschino un’altra moneta.

La calle dell’ingresso al Palazzo era molto stretta e del cielo non si vedeva più che una striscia. Notai che mio fratello passava a malapena perché le sue spalle quasi toccavano i due muri paralleli. Potrebbe stringersi sempre di più e soffocarci, pensai, potrebbe crollarci qualcosa in testa, da lassù. Allora smisi di guardare in alto, dimenticai la striscia di cielo e mi concentrai nel raggiungere Luchino. Si era fermato davanti all’ingresso laterale.

«Questa deve essere l’unica porta da cui si ha accesso dalla terraferma.» Con le mani si rimboccò le maniche della giacca fino ai gomiti.

«Luchino, cosa fai?» gli domandai ridendo, guardando a destra e a sinistra per assicurarmi che non ci fosse nessuno. Intanto lui abbassava con forza la maniglia.

«Metto alla prova la sincerità delle parole del gondoliere, cara sorella. Si è mai vista una casa abbandonata la cui porta non sia socchiusa, se non del tutto aperta? Le serrature cedono nel tempo e, ragione vuole, se i proprietari sono andati altrove di certo non si sono preoccupati di mettere la casa in sicurezza.»

«Dici che qualcuno abita qui dentro?» Il solo pensiero mi riportò alla facciata del Palazzo, vista dal canale, e a una possibile figura che, magari nascondendosi dietro una tenda logora, sarebbe potuta stare al davanzale mentre passavamo in gondola. Istintivamente, presi a sussurrare. «Qualcuno di cui neanche i locali sono a conoscenza?»

«Ma non diciamo sciocchezze! Una famiglia che rimane a vivere in un rudere del genere? Non siamo mica in un racconto di fantasmi. Anche se … » e Luchino mi guardò con uno sguardo tetro, fatto apposta per mettermi paura. Io indietreggiai di qualche passo e lui proruppe in una risata roca. «Iole avrai anche compiuto venticinque anni ieri, ma di cuore resti sempre una bambina.»

«E tu un fratello maggiore senza cuore!» ribattei, per poi portare l’indice al mento e tornare seria. «Non sarà che qualcuno la vuole tenere comunque chiusa?»

«Credo anch’io.» rispose, e finì di sistemarsi le maniche. «È proprio quello che dovremmo scoprire.»

«Dovremmo?»

«C’è qualcosa che mi intriga in questa storia. E poi non sarebbe una di quelle cose che nostra madre non farebbe mai?»

Mi trovai d’accordo. Mia madre, per come io la conoscevo – vale a dire da figlia – era una donna pragmatica; tanto nella vita, quanto nell’educazione. Per lei l’avventura era un gioco, e ogni gioco una perdita di tempo. Io ero sempre rimasta al suo fianco, con Luchino che andava e veniva da casa, pensando che tutto sommato giocare un po’, tempo permettendo, non sarebbe stato condannabile. Mio fratello d’altronde mi aveva sempre insegnato questo: quando mamma non vede, si possono fare cose molto divertenti.

«Da dove cominciamo?» chiesi allora, accorgendomi solo dopo che Luchino aveva già preso a incamminarsi verso il fondo della calle.

Ci avvicinammo al primo bacaro che vide nel campo più vicino. L’insegna di legno era rovinata dall’umidità e si leggeva appena una scritta gialla; ‘’Cantine e Vino, Benson’’. Nei tavoli accanto alla porta d’ingresso, due uomini con lo sguardo velato dal bere, litigavano in dialetto stretto. Comprendendo quasi all’istante la mossa che mio fratello stava per fare, presi fiato ed entrai per prima. Se vuole giocare a questo gioco, dissi tra me, ci giocherò come una vera professionista, una detective, o una spia, e lui ne sarà fiero.

La porta sbatté e un’oscurità densa di odori ci ghermì alla schiena. Il locale viveva in una continua notte incongrua. Non era illuminato da nessuna lampada ma solo dal pallido sole che veniva dalla strada. Dietro al bancone, un tavolone sbilenco buttato alla fine della stanza, stavano in piedi due donne. Smisero di parlare fitto tra loro quando ci videro entrare e, senza il loro brusio, sembrò che la tenebra aumentasse. Entrambe, più per istinto che per volontà, ci squadrarono dalla testa ai piedi. Eravamo vestiti eleganti, troppo eleganti, per passare inosservati in un posto come quello. Luchino infilò la mano in tasca per nascondere l’anello e cercare anche di coprire un poco l’orologio. Nel mio caso, invece, non c’era molto che potessi fare; il filo d’oro che portavo al collo e la borsetta di coccodrillo si abbinavano troppo bene alla mia faccia pulita, eccessivamente pulita.

«Sì?» fece una delle due, la più giovane, sporgendo il petto in avanti, guardando fissa in viso mio fratello. «Cosa bevete?» e sulla sua espressione, dapprima seduttiva, si dipinse un sorriso grottesco che bastò da solo a trasformarla per intero. Si pulì le mani sul grembiule logoro, prima di posarle sul bancone, vicine quasi a sfiorare la camicia immacolata di Luchino.

«Due caffè.» rispose lui. Evitò di guardare il corpo proteso della ragazza, credendolo il comportamento più adeguato, ma subito lei cambiò posa e si ritrasse, offesa.

«Caffè, niente. Non ne facciamo.» disse l’altra.

«Due bicchieri di acqua allora.» ordinai io. L’acqua avrebbero dovuto averla per forza, e poi noi non bevevamo mai niente di alcolico, mai prima delle cinque di pomeriggio.

A quel punto la cameriera più vecchia con un gesto brusco appoggiò due bicchieri sul bancone.

«Basta così?» disse secca. E io, sentendomi in dovere di ordinare altro, chiesi anche una bruschetta.

Sfilai il guanto e le due donne continuarono a guardarci, mute. «Siamo arrivati a Venezia ieri,» cominciò Luchino, «e già vorremmo stare qui per sempre.» Il tentativo di rompere il ghiaccio sortì l’effetto sperato. Le due parsero sciogliersi quel tanto che bastava a farci prendere coraggio. «Passando di qua, abbiamo notato quel palazzo, la Ca’ d’Ambra ci hanno detto che si chiama, quello sul canale, al fondo della calle. Voi lo conoscete?»

Le cameriere si scambiarono un’occhiata.

«Intendo dire; sapete forse chi lo abita?»

In quel momento ci trovammo accanto uno dei due uomini che avevo visto seduto fuori al tavolino. Doveva già trovarsi all’interno quando Luchino porse la domanda, perché rispose al posto delle cameriere che intanto, attonite, non avevano ancora detto una parola.

«La curiosità uccise il gatto… ma la soddisfazione lo riportò in vita. La curiosità lo uccise, il povero gattino.» E tossì e rise insieme, in maniera orribile. Era paonazzo dal bere, con una barba incolta e ispida che gli ingarbugliava la faccia. «I ragazzi vogliano sapere, quindi, del palazzo.»

«Sì.» Luchino, con fermezza, si girò verso di lui. Si aspettava che il vecchio potesse fornirgli informazioni preziose, nonostante tutto, nonostante lo stato alterato, era comunque un veneziano, e doveva conoscere la zona.

«La Ca’ d’Ambra … la Ca’ d’Ambra non mi sembra possa interessare due signorini come voi. Tutta quell’umidità, potrebbe rovinare i capelli alla ragazza.» Fece un gesto veloce, da ladro, e mi sfiorò una ciocca di capelli. «Con quella umidità non si può fare niente, neanche con i quattrini.» e ci sbeffeggiò entrambi, facendo il gesto di sfogliare banconote. Ma nessuno di noi due si scompose, anzi … Intanto una cameriera puliva il bancone con lo strofinaccio e l’altra, più indietro, faceva finta di essere impegnata facendo scorrere, a vuoto, l’acqua nel lavello.

«Trovo sia un Palazzo incantevole.» dissi allora io.

«Ah si?» fece il vecchio emettendo una stridula vocina per farmi il verso.

«L’unica cosa che volevo sapere da lei,» continuò Luchino parandosi davanti a me per proteggermi, «era se … fosse abitata o no.»

La cameriera più giovane ruppe il silenzio e disse; «A dire il vero la Ca’ d’Ambra …» ma, prima che finisse, subito l’altra s’intromise; «Non sappiamo niente. Chiedete altrove.»

«Grazie comunque.» disse Luchino, e, dopo che mi prese sottobraccio per uscire dal bacaro, quando davamo già le spalle al banco, sentimmo il vecchio ubriacone dire ancora: «La curiosità uccise il gatto, il povero gattino.»

Non avevamo quindi ricavato granché. Attorno a noi, sfilava di nuovo la vita comune del primo pomeriggio, e le persone, occupate dall’andare in qualche posto, con bambini, sacchetti o – nel caso peggiore – bambini e sacchetti insieme, creavano un forte e allegro contrasto con la cupezza del piccolo locale.

«Ci aveva avvertiti la mamma, ti ricordi?» Mi era sempre parso che Luchino non la ascoltasse a dovere la mamma, anche quando dispensava consigli utili, e quindi a volte sentivo che, se fossi stata io a ricordaglieli, si sarebbe forse deciso ad ascoltarli.

«A proposito di cosa precisamente: criminali, spese o virtù morali?» Il suo sorriso sghembo, che in famiglia dicevamo essere un segno di furbizia, ma anche di poco rispetto, apparve immancabilmente sul suo viso.

«Ma dai … tu mi fai dannare! Intendo, i veneziani che sono tutti scorbutici, perché non vogliono i turisti, e proprio per questo vivono su tante piccole isole. Attaccate, sì, ma pur sempre isole.» Luchino, pensieroso, si fermò in mezzo al campo per accendere il sigaro. «E anche quella gente, là dentro, si vedeva; non volevano dirci le cose per principio.» E tirai fuori anche io una sigaretta dalla borsa.

Ero intenta ad armeggiare con i fiammiferi quando una voce mi interruppe: «Scusate, scusi.» Ci voltammo entrambi anche se era la spalla di Luchino quella che la cameriera più giovane del bacaro aveva appena sfiorato con tocco incerto. Affannata dalla corsa che aveva fatto per raggiungerci, ansimava, con il grembiule in mano. «Scusi Signore io, so come aiutarla. Per la storia del Palazzo, io..» Si guardò le spalle, per assicurarsi che nessuno la vedesse e, sussurrando, continuò: «Se avete qualcosa da darmi in cambio, per il disturbo. Vi dirò una cosa.»

«Per la sua preziosa informazione, tutto quello che vuole – nei limiti del possibile – cara.» Luchino aveva già le mani in tasca e tirò fuori il portafoglio. Gli occhi della ragazza, piccoli e neri, scintillarono. «Ma prima mi dica, prego, ciò che sa.» Senza distogliere lo sguardo dalle banconote che mio fratello ora teneva tra l’indice e il medio, quella seguitò: «Non lo deve sapere nessuno. Io in certe faccende, non ci tengo, a essere immischiata. Ma, posso segnalarvi l’indirizzo di una persona, un avvocato – gente per bene! Come voi – che sa tutto sui palazzi della zona. Un avvocato serio, con il suo studio qui vicino e tutto il resto. Vi interessa?»

«Eccome.» rispose Luchino e mi guardò. Allora capii che serviva un foglio, e mi misi di nuovo a frugare nella borsa finché non trovai la mia agenda e una piccola stilografica. La ragazza afferrò carta e penna e si curvò tutta, per riuscire a scrivere. Dopodiché strappò la pagina e la diede a mio fratello. «Metta in tasca, si sbrighi.» E lui obbedì, dandole poi i soldi che le aveva promesso.

Scomparve in un attimo e, prima che riuscissimo anche solo a ringraziarla, si era già incamminata a passi svelti dentro il suo antro di tenebra, nascondendo le due banconote nella scollatura. Allora io e Luchino ridemmo entrambi. Il gioco si faceva interessante, e proseguiva in maniera fortunata. Presi da un’incontenibile curiosità, non avevamo ancora superato il campo che già ci eravamo appartati per leggere il biglietto. In una calligrafia storta, con sbavature di inchiostro e imprecisioni, si leggeva;

‘’Antonio Carraro – Tiozzo, Avvocato. Fondamenta della Misericordia 2804.’’

Guardai l’orologio di Luchino e vidi che non erano ancora le cinque. L’ora comunque per noi faceva poca differenza. Non era come a casa, dove il tempo veniva diviso, con la precisione del minuto, tra attività di beneficienza, pranzi, messe e aperitivi, e, soprattutto, non c’era nostra madre, che avrebbe con assoluta fermezza rifiutato la possibilità di incorrere in un imprevisto. L’avvocato, è vero, non lo conoscevamo. Ma sarebbe stato sciocco non andare a visitarlo dopo tutto l’impegno che avevamo messo per ricavare un nome e un indirizzo. Luchino, poi, sembrava assolutamente convinto che andare alla volta della Misericordia fosse importante, se non per la giornata di per sé, almeno per il gioco. Con ampie falcate si diresse verso una bancarella e comprò una cartina di Venezia, di quelle solite, dove, per fartela capire, te la descrivono come un pesce, uno sgombro, con due pinne e un corpo massiccio, che nuota sopra il Canale della Giudecca.

«È molto stupida, la storia del pesce, ma anche efficace, perché dal momento in cui tieni a mente testa e coda, di tanto non puoi sbagliare.» mi spiegò Luchino, passando le dita sulla carta.

Iniziammo quindi a salire verso l’occhio del pesce, prendendo una serie di ponticelli, talmente simili che ebbi l’impressione, dopo un po’, di essere sempre ferma nello stesso punto. Ci trovavamo nel vecchio ghetto, uno dei sestieri più labirintici della città perché, nonostante sia piccolo, è incredibilmente denso, pieno di passaggi segreti e calli cieche. Ricordai, dai racconti di mia madre, che nell’antica Repubblica cinquecentesca gli ebrei venivano chiusi tra le sue mura e mi chiesi se qualcuno ci fosse nato e morto, senza mai vedere altro, senza mai riuscire a uscirne.

«Vedi qui?» Luchino mi indicò un punto sulla mappa, «Siamo proprio sulla strada giusta.»

Dopo aver sceso i gradini di un ponte, ci trovammo al principio di una lunga strada, costeggiata da un canale d’acqua verde in cui si specchiavano le case della riva apposta. Reduci dai vicoli in cui ci eravamo inoltrati, ci sembrò uno spazio arioso, quasi allegro. Alzai il viso facendomi ombra con le mani e, sopra una targa sbiadita, lessi il nome della Fondamenta.

«Eccoci qui, la Misericordia. Ora dobbiamo solo trovare il numero. Certo che deve essere molto lunga questa via, dunque,» e scrutai la prima porta per vedere il civico, «2715, allora dobbiamo proseguire per là.» Luchino fece un cenno di assenso. Girammo a destra e ci tenemmo vicini al canale, godendoci l’ultimo sole del pomeriggio. La luce sfiorava i tetti dei palazzi, pronta a spegnersi dentro il legno delle altane. Non era come a Roma. I veneziani dovevano vederne pochi di tramonti, perché le case erano alte e mangiavano il sole prima che colorasse il cielo. Dopo tutto, avevano i loro motivi per essere sgarbati.

«Si sta facendo buio. L’avvocato potrebbe chiudere lo studio.» Luchino affrettò il passo. Dovetti mettermi a correre per stargli dietro. «Aspettami, aspettami…» Ma lui, come quando eravamo bambini e aveva fretta, mi lasciò indietro. Puntai gli occhi sulla sua sagoma di spalle per non perderlo di vista, finché, d’un tratto, non si fermò davanti a una casa gialla, l’ultima, prima della chiesa che segnava la fine della Fondamenta. Lo raggiunsi con il fiato spezzato e, mentre ispezionava i nomi scritti sui campanelli, mi aggiustai i capelli preoccupata. Devono avere i loro trucchi segreti le spie, pensai, per lottare, saltare da un balcone all’altro, sparare a vista e non avere comunque mai un’aria trasandata.

Luchino suonò due volte il campanello. Avevo quasi finito di fissare le ultime ciocche nella coda quando l’ingranaggio della porta scattò ed entrammo in un minuscolo andito, illuminato da una luce fioca che veniva dall’alto. Era una specie di pianerottolo comune, tipico di certe architetture d’inizio ottocento, con a lato le buche delle lettere dei diversi appartamenti. La luce doveva avere qualcosa che non andava, perché si accendeva e si spegnava, tremolando. Sperai che reggesse ancora un poco e non ci lasciasse al buio. In quella intermittenza, vidi con sorpresa che su ognuna delle pareti, c’erano tre porte identiche e su ognuna delle tre porte, c’era una maniglia, d’ottone, in forma di diavolo con la bocca aperta e la lingua biforcuta. «Che Dio ci assista.» sussurrai tra i denti. «E adesso che si fa?»

Luchino sembrò dubbioso; «Aspettiamo.»

Stavamo per perderci d’animo e tornare indietro verso l’albergo quando l’avvocato aprì una delle porte. Dallo spiraglio, vedemmo sbucare un viso tondo, placido e bianco, cerchiato sotto gli occhi da un alone scuro. «Oddio.. e voi chi siete? Io pensavo che fossero già… va beh, lasciamo perdere.» Mi diede l’impressione di qualcuno che l’aveva appena scampata bella, perché emise un sospiro, si lisciò i baffetti e sorrise, mostrando due file di denti da bambino.

«Ci scusi per il disturbo, Avvocato, siamo venuti senza appuntamento, lei di sicuro non ci aspettava.» Luchino sporse il braccio per stringergli la mano. «Sono il Signor Moretti, di Roma. Lei, invece, è Iole, mia sorella.» L’avvocato gli strinse la mano, poi guardò me: «Incantato, Signorina.» Dopo un inchino teatrale, spalancò la porta e ci fece cenno di seguirlo. Mi parve che carezzasse con la mano destra, mentre con l’altra armeggiava con la chiave, la testa del diavolo d’ottone.

Una scala, molto stretta, di pietra bianca, si arrampicava in alto mentre due sedili di marmo, con sopra inciso uno stemma, poggiavano sulla parete opposta. Pensai che una volta doveva essere stata una casa elegante, ma poi si era ammalata, perché tutto il chiarore della pietra, pensato per illuminare l’ingresso, era macchiato da chiazze scure, come quelle che seccavano le piante della serra di Roma quando arrivavano le infestazioni della cocciniglia, dello oidio o delle cimici. Il pavimento era disseminato di calcinacci e l’umidità aveva scollato uno dei due stemmi che pendeva ormai da un lato, creando con l’altro un’asimmetria allarmante.

«Lassù ci sono gli alloggi del proprietario, un tedesco. Vi dirò, quando vi ho visti, ho pensato foste anche voi tedeschi e ho creduto foste tra gli ospiti che lui riceve ogni martedì sera, proprio oggi. Mi sono detto, altri scervellati che hanno sbagliato campanello. Ma invece non siete qui per fare … » Non si curò di finire la frase perché nel buio, dopo che superammo l’ingresso con la scala, concentrò tutta la sua attenzione per cercare l’interruttore della luce. «Ah! Che disastro, queste luci ti tradiscono sempre nel momento del bisogno. Ma non temete, c’è solo più da fare un corridoio.» Uscimmo all’aperto e percorremmo l’ambulacro che portava al giardino della palazzina. Ci fermammo davanti a una specie di magazzino in mattoni; era una casetta bassa, a un piano solo. Guardando avanti, intravidi le ombre nere degli alberi e, al fondo del giardino, una terza costruzione che si trovava a fianco dello sbocco sul canale e aveva i contorni simili a quelli di una torre, ma in miniatura.

Lo studio si limitava a una stanza di pochi metri quadrati arredata con una scrivania di mogano nero, tre sedie, e una libreria con alcuni volumi, modellini di navi e cianfrusaglie. Un soppalco al quale si accedeva da una scala a chiocciola, sul quale mi parve di vedere un letto, divideva in due l’ambiente. L’unica finestra dava sul giardino ed era stata sbarrata con delle travi di legno fissate a croce. Mi venne in mente che l’Avvocato dovesse tenere molto alla privacy dei suoi clienti oppure era uno di quei professionisti che non desiderano proprio venire disturbati.

Si mise seduto dietro la scrivania e, prendendo con le mani pile di fogli e mettendoli nei cassetti alla bell’e meglio, iniziò: «Allora, miei giovani amici, mettetevi comodi e ditemi, ditemi con tutta la sincerità, cosa vi ha spinto a precipitarvi nel mio studio a quest’ora.» Chissà come faceva l’Avvocato a sapere se fosse giorno o notte, comunque, effettivamente, la nostra incursione si era verifica in un orario da aperitivo, più che da maneggio legale. Guardai Luchino sperando volesse iniziare a spiegare, lui prese fiato: «Abbiamo avuto il suo contatto da una cara amica» disse al Signor Carraro, poi fece una lunga pausa e continuò: «siamo solo turisti, in questa città così fitta di misteri. Ma anche noi, ci perdoni, abbiamo le nostre curiosità.»

Mi affrettai a intervenire: «Venezia, con tutta la sua acqua, i canali e i giardini sembra un sogno. E, proprio come i sogni, è capace di accendere i desideri più strani.»

«Non potrei essere più d’accordo, signorina.» esclamò l’Avvocato, con le mani che si torcevano all’altezza del grembo. «Ma ancora mi sfugge come potrei io… essere utile … a voi? Se permettete per me questo è un periodo buio e ormai, in generale, i tempi non sono più quelli di una volta. Perché, dovete sapere, una volta, qui nel mio studio ci venivano…» Luchino lo interruppe tossendo e quello tacque. «Senta, stamattina io e mia sorella eravamo in gondola, e mentre ci godevamo il giro sul Canal Grande, ad un certo punto, proprio qui vicino, siamo rimasti stregati alla vista di un certo palazzo, il Palazzo della Ca’ d’Ambra. Ecco, da voi vorremmo quindi sapere se il palazzo è in vendita. Vorrei acquistarlo.»

Udendo quelle parole, pronunciate con un’indiscutibile sicurezza d’intenti, riuscii, solo sforzandomi, a trattenere la sorpresa. Provai emozioni contrastanti; da una parte la paura, dall’altra una fortissima eccitazione; se Luchino non stava cercando d’ingannare l’Avvocato, allora aveva davvero in mente di comprare il palazzo, di andarsene da Roma una volta per tutte e di stabilirsi in pianta stabile in una nuova città. E chissà - e a questo era legata la paura - se io fossi realmente inclusa nel progetto, o se fosse solo un modo furbesco di giustificare la mia presenza nello studio. Mi immaginai a Roma, correre verso il postino, chiedendogli se aveva per me qualche lettera, e, delusa, giorno dopo giorno, aspettare una risposta, un cenno da lui, che non sarebbe mai arrivato. Poi, una mattina, mia madre mi avrebbe detto con tono seccato che dovevamo partire, perché Luchino aveva chiesto la mano di una ragazza, una shegetz, una gentile, avrebbe concluso con spregio mia madre, che si sarebbe comunque rassegnata prima di me.

Lo guardai di sbieco, per raccogliere altri indizi, e lui aveva un’espressione seria, fredda, che non gli avevo mai visto.

«Vorrei capire se è abbandonata, come alcuni dicono, oppure no, per poi mettermi eventualmente in contatto con i proprietari, fosse una famiglia, o una società, non mi interessa.» E tacque continuando a non muovere un muscolo mentre il silenzio s’impadroniva della stanza. L’Avvocato esitò, aprendo un quaderno su una pagina bianca e cercando una penna nel disordine. Prese tempo probabilmente, perché quando la trovò, la rimise a posto e ne prese una seconda, poi una terza finché Luchino non si spazientì: «Allora, ha capito quello che le ho detto?» Il Signor Carraro sobbalzò: «Certo, io, stavo solo facendo mente locale. È passato tanto tempo dall’ultima volta in cui qualcuno mi ha chiesto della Ca’ d’Ambra.»

«Non vorremo metterla in difficoltà infatti…» iniziai io, percependo il suo disagio, e mal celando la mia confusione, e a stento continuai: «Potremo sempre passare domani, o un altro giorno.»

Luchino scattò: «Non mi sembra necessario, ora che siamo qui.»

«Signor Moretti, lei ha ragione. In futuro, non potrei dirvi di più di quello che vi direi oggi. Non mi occupo personalmente della Ca’ d’Ambra ma vivo nel ghetto da tanti anni, e so, anche senza volerlo, tutto quello che concerne la vita delle sue case, a chi appartengono, le diatribe, le liti ereditarie, le morti … » I suoi occhi si persero a guardare sopra le nostre teste un punto indefinito, un ricordo. Poi tornò in sé: «Il suo intuito non l’ha tradita, la Ca’ d’Ambra è in vendita, da molti anni … cioè non saprei dire esattamente quanti, ma per essere nella posizione in cui è, parecchi. Credo siano tutti quei lavori di ristrutturazione a intimidire le persone, ma lei, Signor Moretti, ha l’aria di uno che non si lascia intimidire. È riuscito a vedere la bellezza, laddove i più vedono scocciature e fatiche. Quello è un posto che merita, se si è pronti a spendere,» prese fiato e si corresse: «intendo non solo in termini di denaro, ma soprattutto di tempo.»

Luchino, rasserenato, rispose: «Capisco, Signor Carraro e si dà il caso, effettivamente, che io abbia molto tempo da perdere.»

«E, mi viene da aggiungere, anche una sensibilità artistica notevole! Per poter mettere mano con gusto a una dimora così antica» disse l’Avvocato, con i piccoli occhi tondi che brillavano nella semioscurità. Senza aspettare risposta né da Luchino, né da me, si alzò, affrettandosi, e salì la scaletta a chiocciola. Mentre con una mano si teneva stretto alla struttura traballante, voltò la testa verso di noi e disse: «Solo un minuto, un minuto solo. Grazie.» Quando fu sopra il soppalco, sentimmo un gran rumore di cassetti che sbattevano. Io e Luchino ci guardammo, e lui allungò il braccio e prese la mia mano.

Restammo in attesa per un po’, poi il Signor Carraro scese dalla scala, con in mano un foglio. Forse la ragazza del bacaro l’aveva avvertito, forse erano amici, o addirittura amanti perché, nonostante il grande subbuglio che regnava nello studio, l’avvocato riuscì a sottoporci tutto il materiale necessario.

«L’ho trovato! Ecco, questo fa al caso nostro. Ci sono tutte le informazioni che vi saranno utili» e lo diede a Luchino che lo prese con avidità e iniziò a scorrerlo con gli occhi. «È un po’ vecchio,» proseguì «ma spero sia ancora leggibile. Sa, la polvere e, soprattutto, questa maledetta umidità … Signori, spero comunque saprete riconoscere la validità del mio aiuto e magari valutare l’idea di versarmi, ecco, come dire, una piccola percentuale» e le sue mani ripresero a torcersi all’altezza del grembo, inquiete.

«Senz’altro.» rispose mio fratello e questa volta, dalla tasca, estrasse il libretto degli assegni. Prese a compilare e quando ebbe terminato, lo poggiò sulla scrivania. «Bastano?» Notai che l’Avvocato si trattenne dal prenderlo subito e respirò profondamente. «Qui leggo un nome tedesco. L’indirizzo è a Vienna.» disse Luchino, continuando a rigirarsi il foglio e l’Avvocato, con aria furbesca, rispose: «Sì. Il notaio risiede a Vienna, precisamente. Ma voi avete appena finito di dire che … » e mio fratello finì la frase: « … Che ho molto tempo da perdere.»

Ci congedammo pochi minuti dopo. Tutti e tre compiaciuti dal colloquio, ci avviammo verso la porta, l’Avvocato la aprì e, con un gesto raffazzonato, ci invitò a uscire per primi. Quando fummo di nuovo nell’ambulacro, sentii alcuni rumori e mi girai verso il giardino. Le finestre della torretta erano illuminate e, proprio dal suo interno, provenivano strani suoni, mormorii, come di un canto. Anche mio fratello, incuriosito, si girò insieme a me a guardare e l’Avvocato, appena se ne accorse, intervenne ansioso: «Avanti, avanti. Non ci fate caso.» e, sgraziatamente, mi mise una mano sulla spalla per invitarmi a proseguire. Vedendo che eravamo entrambi interdetti - mio fratello e io - si sentì di dover dire qualcosa. Allora, puntualizzò con voce ronzante: «Non ci fate caso. Quelli sono gli ospiti del Signor Faifofer che ogni martedì sera invocano gli spiriti.»

CAPITOLO SECONDO

UNA STRANA CLAUSOLA

Venezia, durante la nostra assenza, aveva cominciato a ingiallire per l’arrivo dell’autunno, nessun oleandro aveva più i suoi fiori e la luce, anche lei, in quel mese era cambiata, stemperandosi. In questo però, non c’era a parer mio nessun segno di tristezza, al contrario, la città senza i suoi bagliori mi sembrò da subito più calma e riposante.

Era già tutto pronto: Luchino, quando eravamo andati a Roma a preparare le casse da spedire, aveva affittato con anticipo il piano intermezzo di Palazzo Giusti, di fianco alla Ca’ d’Ambra e a questa addirittura collegato tramite un ponte in muratura. Il ponte partiva dalla fine dell’ultima saletta ed era rimasto chiuso per un decennio, con un armadio che ne copriva per intero il varco. Incuriositi dalla storia del collegamento, avevamo scritto ai proprietari che l’alloggio faceva proprio al caso nostro. Ci sarebbe servito per un periodo che ancora non sapevamo precisare - ‘il tempo dei lavori’ - e quelli avevano risposto che non c’erano problemi, che potevamo anche, a nostro gradimento, affittare quell’alloggio per sempre perché loro non ci risiedevano più, né avevano intenzione di tornarci. Quando entrammo nel nuovo appartamento, l’armadio non era più lì e non vidi armadi che avrebbero potuto coprire quel buco in altre parti della casa. Probabilmente l’avevano portato via, dovevano essere venuti a sapere da qualcuno che il palazzo che avevamo appena acquistato era proprio la Ca’ d’Ambra.

Eravamo contenti, molto contenti, di avere un posto dove vivere durante la ristrutturazione, un posto così funzionale e, direi, felice. Somigliava, per gli ambienti e l’illuminazione, a molte altre case di vacanza, non troppo grande ma dignitoso, con due camere da letto per noi e una più piccola per gli ospiti, tutte tappezzate di colori diversi. Poi, nel mezzo, stava il salotto principale e subito dopo una saletta, quella da cui si apriva l’ingresso al ponte, che Luchino decise subito di adibire a studio personale.

Devo ammettere che il mio secondo arrivo a Venezia mi scombussolò non poco, mi ero lasciata trascinare per la prima volta dai ritmi serrati di mio fratello che aveva sempre avuto la fama di essere un abile viaggiatore, anche se non immaginavo fino a che punto. Lo vidi, in quelle settimane, prenotare una grande quantità di alberghi, prendere i biglietti per i treni e incastrare le tempistiche con la precisione di un matematico. Di buono, c’era che mi potevo fidare e quindi abbandonare a lui totalmente, senza dover verificare nulla.

Ci eravamo divertiti come matti, tirando a indovinare la storia delle persone sedute vicino a noi nei locali e inventandoci storie sui nostri passati, sempre eroici e inverosimili. A ogni tappa, eravamo qualcun altro: a Bolzano, una coppia di pittori francesi sempre in lite, a Salisburgo, due fuorilegge in fuga, a Linz, gemelli siamesi separati alla nascita dal più celebre chirurgo al mondo. Solo quando arrivammo a Vienna, smettemmo di fingere e tornammo a essere noi stessi.

Il nostro incontro con il notaio fu decisivo. Ci ricevette nel suo studio, situato in Wallner Strasse, una traversa di Kolhmarkt, al primo piano di un piccolo edificio azzurro, sopra un negozio di tessuti. Là, fece firmare a Luchino un’infinità di fogli, scritti in italiano e in tedesco. Non posso dire fosse un uomo amichevole, anzi si comportò con noi in maniera oscura e per tutto il tempo, nonostante le insistenti domande di Luchino, parlò poco e con voce strascicata. Era un signore anziano con una lunga barba e io, una barba così lunga, l’avevo vista a poca gente in vita mia, solo ai rabbini, o agli amici di mia madre assidui delle yeshivah. Fosse per la barba, o per la poca dimestichezza col francese, di quello che diceva non si capiva quasi niente. Nonostante tutto, durante quella riunione riuscimmo a scoprire che il prezzo della casa era quasi irrisorio, "È regalata", mi aveva detto Luchino, tutto contento, quando aveva letto la modica cifra su uno dei foglio del notaio. Poi, aveva passato in rassegna l’atto d’acquisto con aria attenta. Si precisava, in quelle carte, che il proprietario, per motivi di riservatezza, voleva rimanere anonimo facendosi rappresentare interamente dal notaio, il quale, quando mio fratello chiese spiegazioni, bofonchiò una frase incomprensibile. Noi, per buona educazione, non insistemmo oltre, limitandoci ad annuire. Al fondo del contratto stava una singolare clausola scritta in grassetto che l’anonimo proprietario imponeva ai futuri acquisitori. In quella postilla si leggeva pressappoco così: ‘’Con la firma del presente atto il compratore s’impegna formalmente ad avvalersi dell’opera del sig. Domenico Polo, architetto in Venezia, per tutto ciò che riguarderà il restauro e consolidamento dell’immobile oggetto del …" poi avevo perso la concentrazione e non ero più riuscita a seguire il resto, ma Luchino mi aveva assicurato che l’importante era scritto nelle prime righe, come sempre in quei casi, e che il seguito non era degno di nessuna nota.

Al tavolo nella sala principale consumammo la nostra prima colazione insieme, nel nuovo appartamento a Palazzo Giusti. I proprietari ci avevano fatto trovare già in casa una cameriera, piccola di statura, sulla quarantina, con dei begli occhi verdi che, dopo poco che eravamo arrivati, ci servì uova alla coque, caffè e biscotti bussolai, ancora caldi di forno. La cameriera si chiamava Marisa e bastò poco per accorgermi che avremo collaborato bene alla gestione della casa. La prima casa che gestivo da sola, ripetei tra me, e mi venne un brivido. Mia madre non era stata affatto contenta quando le avevamo annunciato i nostri intenti, eppure non si era mossa dalla grande poltrona su cui sedeva sempre, era rimasta lì, e, con fare sdegnoso, aveva detto: "Tornerete, sciocchi, perché da soli, voi due, non sapete combinare un bel niente’’. Luchino l’aveva baciata più volte sulla guancia e le aveva risposto che sarebbe potuta venire a trovarci spesso e che avrebbe potuto comunque ordinarci a distanza di fare come voleva lei. «Tanto sono io che pago!» aveva ribattuto e io, mentre assistevo a quella scena, avevo quasi pianto perché, nonostante tutto, il pensiero di lasciarla sola mi rendeva molto triste.

Ma niente mi esaltava di più dell’idea di una nuova vita. Molte volte, io e Luchino avevamo pianificato di abitare insieme, di vivere liberi dalle costrizioni famigliari e da ogni altro obbligo sociale. Dopo il viaggio in Austria, tutti i miei dubbi erano svaniti: al parco di Schönbrunn, a Vienna, mentre sedevamo sotto un pergolato con due leoni di pietra, nascosti dai cespugli di alloro, Luchino aveva preso a immaginare il nostro futuro a Venezia. Un futuro, diceva con voce calda e decisa, dov’eravamo noi due e un nuovo mondo, scelto da noi, secondo la nostra volontà soltanto. Mi ero allora pentita di avere dubitato dei suoi propositi e l’avevo stretto forte, lasciando che continuasse a parlare tra le mie braccia mentre mi poggiava la testa in grembo e chiudeva gli occhi.

«Aspetteremo finché non arriva?» Scossi Luchino dalla lettura del suo giornale. Sospirando, lo posò sul tavolo e mi venne vicino «La pazienza è la virtù dei forti … e poi, che altro potremo fare? Ha lui le chiavi.» Mi poggiò una mano sulla spalla mentre io, assumendo una finta posa da annoiata, mi portai alle labbra la tazzina. «Sai, ti confesso un segreto» iniziò a dirmi, chinandosi un poco su di me «prima, mentre facevi conoscenza con Marisa, e nessuno mi guardava, ho provato a valicare il ponte. Ho fatto un passo, poi un altro, e mentre camminavo a tentoni non ci vedevo niente – perché non ci sono finestre – e quando avevo già fatto un po' di metri, ho urtato contro una porta.» Alzò lo sguardo e lo rivolse altrove. «Un’altra porta? In fondo al ponte?» domandai, togliendomi di dosso l’aria noncurante. «Esatto … blindata addirittura! Tutte queste precauzioni per un vecchio rudere … L’architetto deve fare bene il suo lavoro e i vecchi proprietari dovevano fidarsi molto di lui, per andare via lasciandogli tutte quelle chiavi.»

Mi pulii la bocca con il tovagliolo e poi lo sventolai davanti alla faccia di Luchino, per solleticarlo. «Io le avrei già perse nei canali! A forza di camminare sull’acqua … » In risposta, mi fermò con dolcezza il braccio e prese a giocherellare con i miei capelli. «Certo che ne hai di fantasia. E poi questa storia dell’acqua, un giorno dovrai spiegarmela per bene.» Stavo per iniziare a raccontargli tutti i dettagli: il nostro peso che si faceva più leggero a forza di stare a Venezia, una trasformazione che iniziava dalla punta dei piedi e poi saliva e saliva fino al giorno in cui, uscendo sul Canale, ci saremo accorti che non ci serviva nessun passaggio in barca, ma, stavo appena decidendo da dove iniziare, quando il campanello suonò trillando, molto forte, ed entrambi sobbalzammo.

«Eccolo, è arrivato … » disse mio fratello muovendosi in direzione della porta «Marisa, vada ad aprire per favore. Abbiamo un ospite.» Da dove ero seduta, sentii i passi di Marisa ticchettare sul pavimento e vidi Luchino seguirla, imboccando il piccolo corridoio dell’ingresso. Mi conviene aspettarlo qui dove sono, pensai, senza accoglierlo alla porta, così da dare l’impressione di una signora fatta e compiuta, una donna d’altri tempi che attende gli ospiti nel suo salotto, senza scomodarsi. Incrociai le gambe, presi con una mano il coltello per il burro, lo orientai verso la finestra e, furtivamente, mi riflessi nella lama, cercando di vedere tra le striature bianche i contorni del rossetto. Niente di sbavato e niente tra i denti, mi rincuorai, assumendo infine l’espressione che più mi sembrava altera.

«Ed è con grande piacere Iole che ti presento il Signor Polo.» Luchino aveva le braccia aperte e incoraggiava la presentazione tra noi. Io porsi la mano e l’Architetto, invece di stringermela, la portò vicino alla bocca e la baciò discreto. Era un uomo notevole, il Signor Polo, addirittura più alto di Luchino, con i capelli brizzolati che gli crescevano lunghi e che, per comodità o per vezzo, teneva legati in un codino. Il viso era lungo, con un naso aquilino nel mezzo e due occhi scuri, ben proporzionati e intensi. L’abbigliamento, pensai, era quello che mia madre avrebbe definito ‘il vestiario discreto di un professionista’. Niente, proprio niente, sembrava fuori posto, eppure non c’era un solo dettaglio che lo facesse peccare in vanità, nemmeno il codino. La mia espressione altera si dileguò in un attimo, alla vista di quel personaggio che non mi pareva meritarsela, e lasciò spazio a un sorriso accogliente. Dopo avermi baciato la mano, non si soffermò, come facevano per istinto molti altri uomini, né sul mio viso, né sulla mia figura. Anzi, mi guardò appena, e poi, rivolto a mio fratello, disse: «Se posso permettermi, avete scelto un luogo più che adeguato per dirigere i lavori.» Poi tornò a me, guardandomi questa volta più a lungo, ma sempre in maniera distaccata, e aggiunse: «Scommetto sia molto comodo per un signorina.»

Quella parola, signorina, mi urtò un poco, perché ci tenevo a sembrare più adulta e credevo che le persone, ora che abitavo con Luchino, in una casa solo nostra, mi avrebbero considerato diversamente. Valutai, però, l’età dell’Architetto, che avrebbe potuto essere nostro padre, e lo perdonai con indulgenza. «È stato un vero colpo di fortuna, trovare questo appartamento. E i proprietari, non so se lei li conosce, sono stati molto cordiali.»

«Mi ricordo solo vagamente di loro, ma erano ospiti impeccabili.» rispose Polo, sedendosi sulla poltrona azzurra che gli avevo indicato con un cenno. «Un sigaro?» Luchino aprì la scatola rossa che teneva sul comò e di cui andava fiero perché conteneva sigari dalla più varia provenienza, selezionati durante i suoi viaggi. «Perché no? Con piacere.» L’Architetto ne prese uno, quello che stava sopra gli altri, e non sembrò notarne il pregio, o fece finta di niente, e lo accese. «Quindi li conosce, i proprietari di questa casa?» ripresi io. «Tanti anni fa mi sembra di essere stato invitato a cena qui, in questo appartamento. Ma, ve ne accorgerete, i piani nobili dei palazzi sul Canal Grande si somigliano tutti, in un modo o nell’altro. Sarà per l’esposizione alla luce, o per l’altezza dei soffitti, non saprei dire con esattezza.» Guardò prima la finestra, poi il soffitto a cassettoni. «Tutti, ad eccezione del vostro palazzo.»

A quelle parole Luchino si tirò a sedere diritto, animandosi. «La Ca’ d’Ambra! Pensi che l’ho acquistata a scatola chiusa, così, senza neanche vederne l’interno, non avrei mai creduto … Anche se alcuni mi definiscono una persona impulsiva, non avrei mai pensato che avrei fatto un acquisto così importante, e così azzardato. Ma, non so se sia mai successo anche a lei, quando l’ho vista ho avuto come una premonizione.» Si portò le mani al petto, poi prese fiato e, non riuscendosi a contenere, seguitò; «Come quando si vede una ragazza la prima volta e non è come le altre, non la si valuta razionalmente, non ci si aspetta nessuno sguardo civettuolo prima di parlare, nessuna conferma… Si pensa solo: è diversa, lo so, diversa da tutte le altre e devo averla.» Dopodiché si abbandonò sul divano e guardò il Signor Polo. Anche io mi girai verso di lui, e lo sorpresi con un’espressione assorta, il sigaro tra le dita e le labbra piegate in un vago sorriso. «Capisco bene. Lei si è innamorato.»

Poco dopo stavamo scendendo le scale, con Polo a precederci, Luchino e per ultima io, che mi ero attardata a dare indicazioni a Marisa per il pranzo. «Torneremo tra un paio d’ore.» le dissi a voce alta, prima di chiudermi la porta d’ingresso alle spalle. Ora mi sembrava non avessimo più tutto il tempo a nostra disposizione, avevamo una missione, una nobile missione da compiere: costruire la nostra dimora comune, prodigarci in continue decisioni. Anche se non potevamo più oziare, non mi sentivo prigioniera del tempo, avevo invece l’impressione di essermi liberata da un grande peso, di poter condurre le mie giornate in piena autonomia e questo – dovevo ammetterlo - non mi era mai successo.

Superate le scale, uscimmo sulla calle laterale. Era la stessa nella quale stava l’ingresso della Ca’ d’Ambra, bastava camminare una decina di metri verso l’acqua e si arrivava alla medesima porta che io e Luchino avevamo cercato di aprire quel nostro primo giorno a Venezia, con scarsi risultati. Da lì era iniziato il gioco.

Avanzai in direzione del canale e raggiunsi gli altri, che intanto si erano fermati. L’ingresso non me lo ricordavo così, riflettei tra me - mentre l’Architetto estraeva dal taschino una lunga chiave - neanche la strada, non mi ricordavo niente alla stessa maniera. Alzai gli occhi e vidi nuovamente la striscia di cielo e le due mura, il bianco, poi il blu, ed infine il bianco, ancora una volta. Ora trovo tutto più bello, si vede che quella volta ero suggestionata da Luchino che si divertiva a mettermi paura, conclusi, e seguii l’invito dell’Architetto a entrare per prima nella casa.

Mi ero preparata mentalmente a sbucare in una stanza buia, o comunque in una stanza ancora priva di illuminazione artificiale, con una sola finestra che mi avrebbe suggerito i giusti passi da fare ma, non appena superai la soglia, entrai invece in una sciabolata di luce, forte e candida, irreale luce pomeridiana. Oltre l’ingresso, non c’erano stanze. Avanzai in quella che si potrebbe definire una corte, uno spiazzo rettangolare a cielo aperto da cui partiva un grande portico sulla destra, coperto d’assi di legno, che continuava per metri e metri, terminando – e quello lo notai con enorme stupore - su un gigantesco affaccio sul canale, con tre volte le cui colonne, o quel che rimaneva di esse, affondavano direttamente nell’acqua. L’edificio, vale a dire il palazzo vero e proprio, si ergeva sulla sinistra e sulle pareti, di un bianco sporco, soprattutto su quelle laterali del corridoio, si riflettevano le ombre delle onde, in un gioco di movimenti serpentini. La luce non è la stessa che vedevo prima da fuori, pensai sorpresa, è una luce privata, un chiarore freddo, ovattato e immobile. Voltandomi ancora indietro, capii che le mura che si vedevano dall’esterno, e che la prima volta mi avevano dato l’impressione di schiacciarmi, non erano quelle portanti del palazzo, ma una specie di fortezza di cui la casa si serviva per nascondersi. Un inganno, sorrisi tra me, una riuscitissima illusione.

Mentre avanzavo, facevo fatica a rimanere in equilibrio, il tacco delle scarpe s’incastrava continuamente nelle disparità del pavimento. Abbassai il capo e mi accorsi che non era rimasto quasi niente della vecchia pavimentazione; sul suolo stavano terriccio, frantumi di pietra e qualche erba selvatica che spuntava qua e là, tra crepe e spaccature. Luchino, vedendomi arrancare, si avvicinò e mi offrì il sostegno del suo braccio. «È incredibile.» disse poi, rompendo il silenzio, e quella parola, incredibile, si andò a scontrare con le pareti del corridoio, sfiorò l’acqua del Canal Grande, e tornò da noi più volte, spandendosi per echi sempre più lievi in tutto il giardino della corte.

L’Architetto si aggirava per lo spiazzo e la sua andatura lenta formava piccoli cerchi. Teneva le mani allacciate dietro la schiena e la sua testa, piccola e mobile, ispezionava l’ambiente con attenzione. «Assolutamente fantastico.» dichiarò di rimando, fermandosi a pochi metri dalla fine del corridoio. Noi lo raggiungemmo e ci accostammo a lui, girati entrambi verso l’acqua. Le onde, davvero, arrivavano a infrangersi sul pavimento, entravano nella casa, e poi si ritiravano seguendo ognuna il suo ritmo. Non me ne ero accorta prima, ma da vicino, quello strano affaccio, si trasformava in un relitto marino, in una spiaggia di cocci e di alghe.

«Di sbocchi così non ne esistono altri, né a Venezia, né tantomeno altrove.» l’Architetto si avvicinò all’acqua ancora di più, e da lì, praticamente dal bordo, indicò un punto «Vedete, il fusto della colonna, e la colonna intera di per sé, è costruita in un modo che non si è mai visto. Somiglia a una palina, a un palo di ormeggio, e proprio come se lo fosse, poggia la sua base direttamente sul fondo del Canale.» Io e Luchino ci facemmo coraggio a vicenda con uno sguardo, e avanzammo attenti a non bagnarci le scarpe. Sporgendomi, scorsi il bianco delle colonne sprofondare nell’oscurità del fondale, un biancore di marmo si affievoliva, e poi, dopo che scendeva e scendeva, facendosi sempre più sottile, si perdeva e svaniva all’improvviso. Doveva essere profondo il Canale, molto più di quanto credevo e pensando che magari era profondo proprio come il mare fui invasa da un senso di vertigine.

«Iole!» Luchino, accortosi che mi poggiavo al muro per rimanere in piedi, mi prestò aiuto e sentii la sua stretta scivolarmi sulle spalle. «Iole, stai bene?», ripeté, alzando la voce. Gli strinsi la mano e socchiusi la bocca con grande fatica. Desideravo disperatamente rispondergli qualcosa, dirgli che sì, mi sentivo bene, ma che mi era sembrato per un attimo di andare giù, assieme alle colonne, nell’acqua, con il peso di un pezzo di pietra, giù, giù, sempre più in fondo, fino al buio più totale. Ma per diversi secondi non riuscii a dire proprio nulla. Gli occhi che tenevo aperti, mi disse poi Luchino ‘spalancati’, andavano da fuori a dentro, dalla corte al canale e in quei brevi istanti mi sfrecciarono davanti i riflessi sull’acqua di palazzi e barche, poi le volte dell’ingresso e le cornici dei soffitti, e tutto mi pareva sovrapposto in un mondo osceno dove il sopra e il sotto non esistevano più.

Luchino mi aveva allontanata a forza, continuando a sorreggermi, e appena non vidi più il Canale, ma solo la corte davanti a me, recuperai tutte le facoltà. «Bene … adesso.» mormorai, notando che il pavimento era tornato a occupare il suo spazio abituale e così avevano fatto le mura, il cielo e i soffitti.

Intanto l’Architetto aveva assistito alla scena mantenendosi a distanza, forse per educazione, aveva valutato invadente venirmi vicino in quel momento. «Non si preoccupi … » lo sentii dire da lontano «probabilmente si è affacciata troppo, e lei non è abituata. Si sentirà subito meglio, si metta a camminare un po’. Riprenda confidenza con la terra.»

«Cos’è successo secondo lei?» chiese preoccupato Luchino, continuando a tenermi una mano ferma sulla fronte «Un attacco? Uno svenimento? Oppure un malore?» L’architetto continuò a tenere le mani dietro la schiena e, procedendo questa volta a passi un po’ più svelti verso di noi, mi studiò bene in volto e poi, con fermezza, decretò la sua diagnosi: «Vertigine, Signor Moretti, capita spesso a chi arriva a Venezia e si dimentica con troppa facilità che non siamo sulla terraferma, che qui occupiamo un altro piano, quello delle piattaforme, e che queste piattaforme stanno sempre in movimento, con noi sopra, ignari o meno della situazione.» Poi la sua espressione si stemperò un poco e si rivolse a entrambi con dolcezza. «Vedete, ce ne rendiamo conto meglio, quando guardiamo l’acqua. L’acqua ci ricorda che non siamo fermi e a questo, prima o poi, ci si deve rassegnare.»

Quelle parole mi rassicurarono; se capitava spesso, voleva dire che era normale e se era capitato a me, questo mi confermava ancora una volta che ero un essere particolarmente sensibile e per me la sensibilità era una virtù, un sintomo d’umanità. Sospirai profondamente abbandonando le braccia lungo i fianchi. «Che sollievo, cara sorella. Stai già tornando colorita!» Luchino smise di monitorare la temperatura della mia fronte e io, che mi sentivo davvero molto meglio, quasi come se nulla fosse mai successo, incoraggiai l’Architetto a rimanere insieme a noi per proseguire con la visita.

L’unica entrata del palazzo accessibile era una piccola porta situata davanti al pozzo. Il pozzo era ridotto al suo scheletro elementare; mancava di ghiera e la cavità rotonda rimaneva esposta, senza parapetto o impalcature. Se uno non fa attenzione, ci cade dentro a un buco del genere, dissi a me stessa, continuando a camminare con cautela. Arrivata davanti al foro volli tenermi il più lontano possibile per paura di un ritorno di vertigine. «Credo dovremo tutti e tre chinarci, per riuscire a entrare da qui.» disse l’Architetto, sistemandosi in modo tale da riuscire a entrare nel pertugio della porticina. Anche Luchino fece lo stesso e io, che forse avrei dovuto essere stanca, o temere per la mia salute, mi sentii invece piena di coraggio e tenendomi la gonna ferma sotto il ginocchio scavalcai il gradino e mi piegai con grande agilità.

«Vedete, » cominciò l’architetto, scostando dalla finestra una vecchia tenda polverosa per fare luce «una volta c’era un altro ingresso, una meravigliosa scala esterna che portava a un primo piano, con le ringhiere decorate da teste di tigre. Quella scala, ormai è distrutta, ma proprio qui sono accatastati o, per così dire, sepolti, i suoi resti. Guardate là, un vero cimitero di macerie.» e con un rapido movimento del capo, mentre teneva la tenda spalancata con le braccia, ci indicò un angolo dello stanzone. «Che scena!» disse Luchino emozionato, avvicinandosi all’ammasso informe da cui sbucavano intere teste di tigre grandi come ananas e perfettamente conservate. Poi, immobile al centro della stanza, sembrò avere un tremito e, mentre la luce gli illuminava il viso e la figura come un faro da teatro, dichiarò: «Da questo inizieremo! Ricomporremo la scala come era un tempo, usando i pezzi originali. Che ne pensa, architetto?» e, con tutte quelle teste di pietra con le fauci aperte che ci guatavano le spalle, seguitò: «Così potremo usare la scala per accedere dalla porta principale.» Il Signor Polo, che intanto aveva fissato il tendaggio a un vecchio gancio arrugginito, rispose pacato; «Sono contento di vedere che anche lei, Signor Moretti, conserva il gusto per l’antico. È una scelta che approvo con enorme convinzione.»

Luchino, dato l’incoraggiamento, non aspettò che l’architetto dicesse altro, e subito riprese: «Se poi a questo puzzle mancherà qualche pezzo provvederemo a trovarne di nuovi. Ci serve solo l’essenziale, il decoro, per dare l’impressione dell’originale.» A me sembrò un’idea divertente perché adoravo quanto mio fratello le stravaganze e poi quella era casa nostra e avremmo potuto scegliere ogni dettaglio come più ci gradiva.

Superammo la prima stanza e tramite una scala interna salimmo verso l’alto. In tutto erano due i piani del palazzo, esclusi il piano cosiddetto di servizio e le soffitte. Quello intermedio, il più maestoso, aveva soffitti alti più di cinque metri, otto ambienti e un balcone che affacciava su una vista straordinaria. L’Architetto aprì le due porte vetrate del balcone, ormai rese dure a causa della sporcizia, e io uscii all’esterno passando attraverso un velo sottile, quasi invisibile, di ragnatele. Ne vale la pena, pensai, anche di rovinare uno dei miei vestiti preferiti … guarda qui fuori che roba! E da quella balconata lunga e stretta, con sei volte ricamate alla maniera d’un merletto, ammirai il sole giallo infrangersi sulle altre finestre, le strisce nere delle gondole e i gabbiani volare in cerchio, attorno ai vaporetti. In quel momento, sentendo i rumori di tutti quegli elementi insieme, che s’incontravano e interagivano tra loro, compresi per la prima volta di abitare in una città di mare, una città che aveva la stessa musica dei porti e delle isole.

CAPITOLO TERZO

UNA DIMENTICANZA

L’architetto organizzò ogni cosa in modo che si potesse partire dalla scala, come si era convenuto. Esaminò le sue agende, traboccanti di contatti, indirizzi, nomi e formò in pochi giorni un’ottima squadra di restauro. Coordinava gli operai con grande maestria e nulla sembrava sfuggirgli. Stava seduto su un singolare palchetto di legno, sopraelevato, e da lì, come un bagnino, si assicurava la visione di tutta la corte. Faceva dei segni, del tipo dell’orchestra, quando qualcuno spostava una testa di tigre con poca attenzione e poi altri movimenti con le mani che invece indicavano i punti dove i vari pezzi andavano inseriti. Sembrava avere, di tutti gli spazi della casa, un’idea totale e doveva avere studiato a memoria le misure poiché non si serviva del metro ma valutava a vista, senza commettere errori.

Luchino, a vederlo lavorare in quel modo, con un trasporto e una precisione impareggiabili, andò in uno stato di vera e propria eccitazione. Dopo il primo giorno, si fece portare anche lui una sedia e, con una paglietta che lo riparava dal sole e i suoi soliti completi bianchi, stava seduto a gambe accavallate vicino all’architetto guardandolo ammirato mentre impartiva ordini alla squadra e riproponendo i suoi gesti, quasi di rimando, come un bambino che impara il mestiere del padre.

Per me, era un vero divertimento. Mi godevo le mattine a Palazzo Giusti, andando e venendo dalle stanze, finendo di disfare gli ultimi bagagli e, dopo che tutti i compiti casalinghi mi sembravano ultimati, andavo a trovarli; valicavo il ponte, la cui porta era stata finalmente aperta e scendevo nel giardino, portando loro per pranzo piccole porzioni di riso speziato, verdure e salse al limone che Marisa mi dava in piatti di ceramica avvolti in elaborati pacchetti aggiungendo dolci kosher , dentro carta di giornale, che comprava nella famosa pasticceria Boccione, nel campo centrale del ghetto.

Alle tre di pomeriggio, quando il sole cominciava a ritirarsi lasciando che i muri oscurassero gli ambienti con le loro sagome scure, i lavori si arrestavano e gli operai si congedavano in gruppo, cambiandosi d’abito in una stanza che avevo addebito a spogliatoio, al piano di servizio. All’improvviso, con la loro scomparsa, si tacevano i rumori di segacci, martelli e morsetti, ogni cosa veniva riposta, le scalette venivano appoggiate alla parete esterna e le passerelle di legno spazzate da piccole scope senza manico. La casa tornava a essere invasa dal silenzio.

Mi fermavo a lungo nel primo pomeriggio e rimanevo con Luchino e l’architetto, noi tre soli, a gustare per un po’ quella calma che era una pace speciale, particolarmente densa, perché portava in se stessa i risultati dell’evoluzione, la crescita che si andava giorno per giorno manifestando nella corte.

Dopo la quarta sessione di lavoro, la scala era stata praticamente ricomposta del tutto, il marmo bianco levigato, le dodici teste leonine inserite al loro posto, dove ciascuna stava a un punto della ringhiera e segnava un gradino, con gli occhi puntati verso l’ingresso. Era un pomeriggio particolarmente soleggiato e felice. Quella mattina ero stata allo spaccio del ghetto dove in una delle calli maggiori venditrici ambulanti vendevano fazzoletti, aghi, spilli, bottoni e scampoli di calicò. Quando mi avevano vista passare, con il viso coperto da un leggera veletta rosata, alcune si erano messe ad armeggiare tirando fuori dalle tasche perfino avanzi di velluto e seta.

Ero rincasata tardi, le guance arrossate dal freddo pungente di Ottobre e tra le mani, un mazzo fittissimo di ciclamini. Scordandomi di togliere i guanti e salutando la cameriera con un filo di voce, avevo posato i fiori sulla scrivania di Luchino, nell’angolo opposto al calamaio. Era un regalo, e lui l’avrebbe trovato nel tardo pomeriggio, quando fuori scendeva la notte e non si pensava più ai fiori. Si sarebbe rallegrato vedendo il giallo acceso delle corolle aperte, illuminate dalla candela, e avrebbe subito pensato a me perché - e questo lo sapevo - ero l’unica donna capace di un gesto come quello. Mentre appoggiavo nel vaso i piccoli fusti, facendo attenzione che nessuno rimanesse escluso, mi cadde l’occhio sul tavolo ingombro. La scrivania era piena, direi quasi sommersa, da enormi fogli di carta lucida da disegno. In uno, quello che stava sopra gli altri, l’unico interamente visibile, si vedeva disegnato da un lato un salone sgombro, con il motivo del vetro delle finestre decorato, e un grosso vuoto lasciato nel mezzo dove sembrava, a matita, accennarsi la vaga fisionomia di un volto. Nell’altra metà, divisa da una linea perfettamente diritta, stava un incrocio geometrico di forme che iniziava dall’alto, con vortici e quadri che si univano, concentrici, e che incastrandosi scendevano giù a cascata, terminando in uno sfumato sempre più confuso. Pensai che Luchino era sempre stato un abile disegnatore e che si stesse impiegando, con quelle carte, a dare forma a progetti che riguardavano la Ca’ d’Ambra e il proseguimento del restauro, magari servendosi anche degli esperti consigli dell’architetto. M’interrogai su quando ci avrebbe potuto lavorare, considerando che tutta la mattina stava nel cantiere e che il pomeriggio lo trascorrevamo quasi sempre insieme. Non trovai una risposta ma potei facilmente immaginare che avvenisse in quei rari momenti dove eravamo distanti. Ogni mattina, quando ci incontravamo a colazione, sembrava si fosse appena svegliato, eppure – l’avevo sempre saputo – Luchino aveva problemi a dormire la notte ed era probabile fosse durante quelle ore che si sedeva alla scrivania e disegnava per passare il tempo.

Mi chinai ancora sul foglio per vedere meglio ma evitai di avvicinarlo alla luce della finestra, per la paura improvvisa che mi prese all’idea che potesse scoprire la mia intrusione. Mi ritrassi e, guardandomi istintivamente alle spalle, controllai che la camera fosse vuota. Tesi anche le orecchie per sentire se i passi di qualcuno stessero attraversando il corridoio. Non udii nulla e mi prese allora la curiosità vorace di guardarmi ancora intorno, in quella stanza misteriosa che mio fratello abitava solo, l’unica stanza che, in un certo senso, non condividevamo interamente. Ci passavo tutte le volte per prendere il ponte ed entrare nel Palazzo ma, con un certo pudore che veniva da una severa educazione alla riservatezza, non mi ero mai permessa, mai, di sostarci per un tempo maggiore a quello che mi serviva per attraversarla. Ebbene, in quel momento sentii che qualcosa cambiava in me e, con il coraggio che viene dalla consapevolezza di non poter essere scoperti, mi lasciai andare al desiderio impellente di frugare dappertutto.

Mia madre, mi avesse vista, avrebbe detto che ero posseduta da Asmodeo, il demone distruttore, che predilige le ragazze bionde e può, a seconda dei suoi capricci, renderle cattive o invisibili. Tutte le volte che peccavo, rubando una penna o un nastro al negozio, o che peggio ancora le disubbidivo, mia madre si teneva saldamente in piedi e pronunciava sei volte il nome del demone a voce alta perché così credeva si dovesse fare per esorcizzarlo. A me veniva sempre una gran paura e quelle scene mi terrorizzavano a un punto tale da pentirmi subito della mia condotta. Ma a diciotto anni avevo appreso da un vecchio libro che tutto sommato Asmodeo era un diavolo minore, di quelli secondi anche negli inferi, e che si poteva quindi permettere solo brevi intrusioni nella vita dei vivi … sorrisi appena e non mi curai di lui. Cominciai ad aggirarmi nello studio, inquieta. Sollevai i disegni, uno per uno, facendo attenzione a non spostarli e, sfogliandoli, scoprii una serie di vaghi abbozzi a matita, senza acquarello o composizione precisa, ancora più confusi del primo. Poi, aprii i due cassetti della scrivania e ci rovistai dentro. Vi trovai una pila di biglietti da visita, il cinturino rotto di un orologio e due fotografie con Luchino ritratto al Cairo, appena venticinquenne, con il suo amico e poeta Gabriele al fianco, una con dietro la Piramide di Cheope e l’altra vicino a un sarcofago con la testa d’uccello, dal quale faceva capolino la sagoma bendata di una mummia.

Rimisi ogni oggetto al proprio posto, facendo attenzione a seguire l’ordine giusto, come un’archeologa che ricompone i resti di uno scavo. Cercando di camminare piano, senza che il tacco toccasse bruscamente il pavimento, quasi sulle punte dei piedi attraversai la stanza in diagonale e mi avvicinai a quel comò intarsiato in bois de rose che io stessa gli avevo consigliato di mettere nel suo studio, nonostante fosse uno dei miei mobili preferiti. Era stato un consiglio spassionato, un invito generoso da parte mia dato che il comò sarebbe stato benissimo nella mia stanza e in più nel suo studio non avrebbe avuto nessuno una funzione pratica. Talmente certa di questo, credendo cioè che fosse vuoto, lo superai e passai in rassegna i libri appoggiati sui piani della libreria; volumi di Mendele Mocher Sforim, Sholem Aleichem e Peretz, alcuni tradotti in italiano e altri nell’originale yiddish, probabilmente regalatoli nella sua tarda giovinezza, stavamo biecamente appoggiati l’uno all’altro, con aria stanca. Seguivano poi edizioni più nuove dei romanzi di Tolstoj, Dostoevskij, Strindberg mentre l’Etica di Spinoza e Il libro degli spiriti di Kardec stavano nel mezzo, in bella vista, e probabilmente stavano proprio lì perché a casa nostra libri del genere sarebbero stati assolutamente proibiti. Ne presi tra le mani alcuni e gli sfogliai, per togliermi lo sfizio. Non riuscivo più a smettere di toccare, prendere e sentire. Al piacere tattile del proibito, se ne sommò un altro, così presi ad aprire i libri annusandone le pagine, inalando con avidità l’odore intrappolatovi di polvere e carta.

Stavo quasi per decidermi a lasciare la stanza, ad andare in cucina a vedere cosa stava preparando Marisa per pranzo, quando a forza di girare, toccare e annusare mi ritrovai ancora una volta davanti al comò. Ormai volevo credere di possedere ogni cosa come se fosse mia. Quindi feci forza sul primo cassettone, tirando la vecchia maniglia, e il legno a scossoni scivolò, finché non si aprì del tutto. Nello spazio desolato che mi apparve davanti spiccava un solitario plico di lettere, impilate con cura nell’angolo sinistro. Erano tutte le lettere che erano arrivate a Luchino da quando ci eravamo stabiliti a Venezia, non più di dieci, di cui sei avevano come mittente l’amico Gabriele. Le restanti venivano da nostra madre e Luchino me le aveva lette tutte, in soggiorno, sorridendo delle sue apprensioni travestite da ammonizioni severe. Avevamo anche deciso insieme le risposte, lievi e velatamente ironiche, che erano arrivate a Roma portando la firma di entrambi. Ma una, quella che stava sopra tutte, non me l’aveva mostrata. Era arrivata due giorni addietro e sulla carta color crema stavano scritte in nero all’incirca queste parole;

‘’Cari figli miei,

Non posso continuare a celare il fastidio recatomi dalle vostre recenti parole, parole dove colgo una grave immaturità di spirito. Ciò mi porta a diffidare ancora una volta di voi e del vostro operato. La vostra nuova città, che tanto idolatrate, a me non sembra che un labirinto mortale, un baracchino fatto apposta per instupidire i deboli di cuore. Non è roba da signori, gettarsi a capo fitto in un posto come quello.

Quindi, date le mie continue preoccupazioni, che mi portano a girare tutto il giorno inquieta per le stanze e a disturbare i domestici addirittura nel cuore della notte, mi sento costretta a comunicarvi che ho prenotato un treno e presto sarò da voi. Arriverò a Venezia domenica, se non ritardo, nel primo pomeriggio. Ho intenzione di vedere con i miei occhi questo rudere che avete acquistato e di fare da me le mie considerazioni. Dalle vostre ultime lettere non si capiva niente. Luchino dovrebbe imparare a spiegare le cose prima di farle. E Iole lo stesso, anche se so che le lettere non le scrive lei.

Non aspetto risposta,

Qui tacet consentire videtur.

La Vostra (sempre presente) madre.’’

Lessi per due volte consecutive la lettera prima di distogliere lo sguardo. Con tutti quei rimproveri mi era sfuggita la data del suo arrivo e mi accorsi, quando tornai a controllare, che quel giorno sarebbe stato l’indomani. «Mamma…» mi sentii sussurrare poco dopo, «Mamma … allora pensi sempre a noi.» dissi bisbigliando al vuoto, «Anche quando non dovresti. Mammina cara, io ti amo lo stesso, anche se vuoi venire qui domani.» Strinsi la lettera al petto mentre con l’altro braccio mi appoggiavo al muro. Ora devo risistemare tutto, pensai, e armeggiai con i cassettoni, mi stirai il vestito e feci due lunghi respiri. Non ci si comporta così, presi a rimproverarmi, e per questo che capitano certe cose, è per questo che la mamma è arrabbiata; lei lo sa, perché ha il sesto senso di cui sono provviste tutte le madri. Sente che non mi sto comportando come si deve. Ho frugato in tutto lo studio di Luchino, ho trovato la lettera e ora è peggio che prima; non so che fare. Si starà anche facendo tardi, e guardai dalla finestra il sole che stava nel mezzo del cielo, alto sopra i campanili, segnando probabilmente il mezzogiorno.

Lasciai lo studio in fretta, accertandomi solo con uno sguardo che almeno l’apparenza della stanza fosse tale e quale a quando ero entrata. Ma come facevo a esserne certa? Pregai Dio, e confidai in un suo piccolo aiuto. Con Luchino avrei dovuto recitare la parte di quella che non sapeva nulla e sperare che non se ne accorgesse. Presi il corridoio e avanzai a passi svelti fino alla cucina, rallentando una volta arrivata nel salone. Sfoderai un sorriso disinteressato come per intendere che avevo fatto le compere e che poi ero stata in camera mia a rinfrescarmi aspettando il mezzodì.

Nella cucina Marisa aspettava sulla sedia del tavolo quadrato, con le gambe distese e leggermente divaricate, che subito accavallò quando mi vide comparire sulla soglia. Fumava anche una sigaretta che tentò di nascondere, maldestramente, dietro la schiena. Ma io ero troppo preoccupata per curarmi di lei e senza togliermi dalla faccia quell’espressione di beatitudine che mi ero imposta, andai dritta al piano dove aveva poggiato il pranzo, sigillato con cura come ogni volta. In un piatto stava la frittura di carciofi, mi disse rimettendosi in piedi, mentre nell’altro un’insalata di rape rosse, quelle con la salsa shug, come piaceva a me. La ringraziai e presi i piatti dal piano. Non ero solita tardare e dovevo affrettarmi per non insospettire Luchino che probabilmente si stava chiedendo che fine avessi fatto.

«Ha dimenticato i dolci, Signora Moretti.» disse Marisa porgendomi un sacchetto. «Oh davvero? I dolci, sì.» tornai indietro tendendo la mano e la guardai negli occhi «Ho riposato troppo, sa, quando riposo troppo sono sempre un po’ svagata.» Lei annuì senza aggiungere altro. Era la prima volta che le confidavo qualcosa di personale e rimase sorpresa, quanto me d’altronde, per quella strana uscita.

Sbucai nelle stanze della Ca D’Ambra poco dopo. Reggevo i sacchetti con entrambe le mani mentre mi facevo strada a fatica sporgendo il viso in avanti per non inciampare, ispezionando metro per metro il pavimento dissestato. Le buste mi parevano più pesanti che mai. Non sono riposata per niente, anzi mi sento incredibilmente stanca, pensai, forse addirittura malata. E poi, oltre tutto, questa della lettera è proprio una storia misteriosa. Non ha senso che Luchino non mi abbia detto nulla. Non ha fatto nemmeno un accenno … ha chiuso la lettera nel comò, il mio comò per giunta, senza rendermi partecipe.

E, mentre quel pensiero sopraggiungeva, mischiandosi con la spossatezza, le scale della casa si fecero ripide come rampe e venni presa d’improvviso dalla rabbia. Dovrebbe essere lui offeso con me e se sapesse quello che ho fatto, probabilmente lo sarebbe, ma invece sono io ora a sentirmi così. Eppure, mi devo trattenere, manca poco e sono arrivata. Questi sono quei momenti della vita di cui parla sempre mamma, i momenti della vita dove bisogna fare buon viso a cattivo gioco o niente, buttare tutto all’aria. Lo stolto casca di schiena e si rompe il naso, invece io non cadrò neanche su queste scale infernali e agirò con astuzia, senza farmi possedere da sentimenti poco nobili.

Superai l’ultima stanza; ormai non era più un cimitero di macerie, ma aveva un aspetto nuovo, luminoso e ben lustrato. Da lì, chinandomi, presi la porticina e uscii all’aperto. «Finalmente! Ma dove eri finita, si può sapere? Saranno ore che ti aspettiamo!» Luchino saltò giù dal banchetto con un salto felino e si mise a camminare verso di me, agitando le braccia. L’architetto, che era di spalle, si girò piano, con gesti misurati, e mi parve di notare sul suo viso una repentina alzata di sopracciglio. Forse è arrabbiato per il ritardo o forse, peggio ancora, sospetta qualcosa. Magari è un medium, pensai, e gli basta vedere qualcuno per sapere che … quante sciocchezze! Tranquilla devo rimanere. Tranquilla.

«Ore mi sembra un po’ esagerato Signor Moretti. E poi, è tutto tempo in più dedicato ai lavori.» incominciò Polo, sorridendo cordialmente «Tutto tempo utile, insomma.» Vedendo come parlava, conclusi che probabilmente era all’oscuro della mia ignobile incursione nello studio e ripresi coraggio, appoggiando i sacchetti a terra per liberarmi da quel peso.

«Si, ha ragione! Devo ammettere che il senso del tempo per me comincia a venir meno… Lo sto perdendo. Per esempio ora, non saprei neanche dire che ore sono, nemmeno all’incirca.» disse Luchino perplesso, prendendo dal pavimento le buste del pranzo e invertendo il passo. «Forse, anzi sicuramente, è perché sono troppo entusiasta per pensare a queste cose! Alla fine cose di poco conto … Iole guarda un po’ laggiù!» e, con la mano libera, mentre camminava verso l’architetto, mi invitò a guardare la scala dell’ingresso.

«Oh, è magnifica! Ci avete impiegato così poco e avete fatto un vero capolavoro.» risposti contenta, sentendo un brivido di felicità davanti alla prova inconfutabile che la casa stesse prendendo forma e che forse il sogno di abitarla si sarebbe realizzato addirittura prima del previsto. Ma la mia euforia sfumò presto e cominciarono di nuovo a gravarmi addosso alcune preoccupazioni; cosa avremo detto alla mamma, come l’avremo accolta e come mai fossi l’unica a ignorare il suo arrivo … Non persi tempo e, regalando ancora un sorriso alla scala luccicante, raggiunsi Luchino e l’architetto sul palchetto, nel mezzo della corte.

«Le piace, Signorina? Alcuni pezzi mancavano ma, grazie all’aiuto di suo fratello, siamo riusciti a contattare alcuni eccellenti artigiani del marmo che, in nome dell’arte, hanno subito provveduto ad aiutarci» mi disse l’Architetto, continuando imperterrito a mirare la sua opera.

«Anche se in realtà facevano solo tombe!» esclamò Luchino, «Quando sono entrato nel loro laboratorio, uno stanzone gigantesco che affaccia sulle zattere, c’erano lapidi e croci accatastate da tutte le parti. Quasi mi vergognavo, a chiedere aiuto per una scala. E così giravo tra tutte le lapidi, scegliendo proprio da quelle il campione di marmo più adatto. Il proprietario, che intanto aveva preso a seguirmi, era abbastanza sul chi va là, soprattutto quando non mi sono trattenuto e gli ho detto del palazzo, delle mie idee, di tutto quanto insomma! Lui annuiva e guardava la moglie. Avrò parlato sicuramente troppo, come mio solito, ma comunque era davvero una strana coppia … anche se a forza di stare in quel cimitero senza nomi, come biasimarli?» e rise iniziando a disfare scompostamente l’incarto del piatto.

Per servirsi l’architetto aspettò che anche io prendessi la mia porzione e poi m’interpellò di nuovo. «E lei Signorina Moretti, cosa ha fatto, a parte farci omaggio come ogni giorno di queste delizie?» io avvampai, pensando che alla fine quei pranzi mi costavano ben pochi sforzi e che, dato l’andamento della mattinata, avrei potuto, anzi avrei dovuto, fare molto meglio e di più. «Compere al mercato del ghetto, ho preso dei tessuti. Tutti molto belli, a parer mio.» dissi poi e, mentre ripensavo agli ultimi acquisti, mi vennero in mente i ciclamini sulla scrivania di Luchino. Istintivamente lo guardai; sembrava più giovane, ma al tempo stesso anche visibilmente più magro, e aveva un modo di fare incredibilmente innocente. Il pallore sul suo viso era aumentato e alcuni segni gli marcavano la fronte e gli angoli esterni della bocca … eppure c’erano in lui una forza e un’energia che lo faceva apparire di nuovo adolescente.

«Per il resto» ripresi «poche cose, un piccolo sonnellino, una lettura. Attività rilassanti alle quali spero si dedichi anche lei, Signor Polo, quando non lavora.»

«Mi rincresce dirlo ma sono molti rari i momenti dove non lavoro. E quando non lavoro, non mi ricordo.» In quel momento i suoi occhi puntarono su di me, posandosi sul mio sguardo come non avevano mai fatto prima, e notai che non erano marroni, ma neri, di un nero purissimo, dove la pupilla si univa a tutto il resto. Distolsi lo sguardo. Era altro quello che realmente mi premeva. Volevo cominciare a fare chiarezza sulla lettera e avevo atteso abbastanza.

Lasciai che le parole dell’architetto cadessero nel vuoto. «Chissà nostra madre…» dissi, posando il piatto sul tavolino da esterno e mi voltai di tre quarti, verso il corridoio. Poi, lasciando che quel primo richiamo acquistasse forza, tornai a sistemarmi com’ero prima e continuai; «Le abbiamo scritto ormai diversi giorni fa e ancora niente, nessuna risposta. Di solito è sempre lì, pronta a cogliere ogni occasione per scriverci qualcosa.» Polo mi guardò annuendo come se, dalle cose che a volte dicevamo su di lei, avesse già capito un po’ che tipo di donna fosse. Mio fratello invece continuava a mangiare, chino, preso da un’anomala ingordigia, dico addirittura anomala, perché di solito non aveva mai fame e saltava anche i pasti senza problemi. Mi sentii di dover aggiungere; «Oggi mi sono venuti dei brutti pensieri che dovrebbero interessare anche te, Luchino,» solo quando pronunciai il suo nome alzò il viso e diresse a me la sua attenzione «dico, ci sarà mica qualcosa che non va?»

Sentendo quelle parole, scostò violentemente il piatto e, come se fosse stato investito da un getto d’acqua fredda al risveglio, mutò espressione; «La mamma!» esclamò poi, alzandosi di scatto dalla sedia «Come ho fatto a dimenticarmene? Eppure ero così certo, così certo di avertelo detto.» Io mantenni la calma e finsi di non capire «Dirmi cosa?» Luchino stava in piedi, rigido, e si teneva la testa con le mani «Questo terribile mal di testa che mi prende sempre a quest’ora … » L’architetto versò dell’acqua in un bicchiere e glielo porse. Bevve a gran sorsi e poi riprese; «Che giorno è?» e vedendo che noi lo guardavamo attoniti, con voce autoritaria aggiunse; «Qualcuno me lo dica, per favore.»

L’architetto risposte prontamente, rompendo il silenzio; «Sabato 11 Ottobre, Signore.» E Luchino si accasciò sul bordo del palchetto, tenendo le gambe a penzoloni. «Sabato! Iole … mi dispiace.» Pur non potendolo vedere in viso, le sue scuse mi parvero sincere. Non risposi, lasciando che proseguisse. «Sarà colpa del mio entusiasmo per questo posto, o di questi mal di testa. Ma - non saprei neanche quando, credo ieri o ieri l’altro - la mamma ha risposto all’ultima lettera. Vuole venire qui. Anzi, si è già organizzata.» e tacque per un lungo istante. Tre gabbiani garrirono in coro, si alzarono da qualche vicina balconata e volarono sopra le nostre teste proiettando rapide ombre. «La mamma sarà qui domani.»

Gli uccelli si allontanarono sfidando la leggerezza dell’aria mentre le loro voci continuarono a stridere, acute come spilli e sempre più lontane, fino alle ultime fondamenta, oltre il vasto principio del mare.

CAPITOLO QUARTO

LA REGINA DEI SABEI

La scalinata della stazione Santa Lucia sembrava fatta di ghiaccio e, proprio come il ghiaccio, attirava i raggi del sole e ne moltiplicava lo splendore. Rimase così, bianca e deserta, finché non sentimmo il fischio del treno. Allora, dopo pochi minuti, vedemmo avanzare sul grande affaccio dell’edificio una macchia scura, che si muoveva lentamente, con grande fatica, assumendo lo stesso andamento di una valanga. Più si avvicinava, più si allargava e la si poteva riconoscere per quello che era; non una calamità sola, ma cinque uomini che portavano i bauli sulla testa o sotto braccio e una figura nel mezzo, attorniata dagli altri come la Regina dei Sabei. Immaginai i ferrovieri scaricare dalla stiva la sua scorta di cammelli carichi d’oro, aromi e pietre preziose. Nelle valige, ci potevano essere i tesori delle conquiste, i teschi dei vinti, le trecce tagliate alle donne prima di ucciderle, intessute con fili d’oro, a mo’ di trofei. Mentre con lo sguardo la seguivo scendere la scala, facendosi sorreggere da ambo le parti, braccio per braccio, pensai che mia madre mi aveva sempre evocato immagini mitiche, dove lei non era mia madre, ma una autorità talmente alta e degna di rispetto da risultarmi spaventosa, quasi temibile.

«Ma quanta roba si è portata? Neanche fosse arrivata qui per morirci.» mi sussurrò Luchino all’orecchio. Con la mano si teneva il bavero chiuso all’altezza del collo mentre il fumo del suo sigaro bruciava veloce a causa del vento.

«Shh.» lo ammonii io, toccandogli con il gomito il fianco sinistro. «Guarda che ci sente.» e sventolai le braccia per farmi vedere anche se probabilmente ci aveva già individuati, perché fin dal primo gradino era scesa in diagonale, puntando verso di noi.

Prima di venire alla stazione, avevo speso tutta la mattina in preparativi. Avevo dato ordine di lustrare i pavimenti, sbattere i tappeti e pulire tavoli e specchi con strofinacci imbevuti di bicarbonato. Tutto doveva essere degno. Se non ci fossi stata io, probabilmente Luchino non avrebbe fatto nulla di simile. Anche se avevo insistito perché rimanesse a casa ad aiutarmi, aveva comunque dato appuntamento all’Architetto e non aveva interrotto il lavoro nel cantiere nemmeno quel giorno. Quando era tornato l’orologio segnava ormai l’una passata. Vedendo come era vestito, cioè con il solito abito bianco ormai ingrigito dalla polvere, l’avevo spinto in camera e gli avevo detto che se non si fosse cambiato immediatamente, l’avrei odiato per sempre. Lui aveva bofonchiato incredibili frasi, borbottando tra sé che le donne usavano in continuazione espressioni assolute come ‘mai’ e ‘sempre’, senza rendersi conto del loro significato e solo per avanzare al prossimo le minacce più terribile. Poi, vedendo che la situazione si sarebbe messa piuttosto male se non mi ubbidiva, senza lamentarsi oltre, si era messo il suo completo migliore. ‘Mi comporto così solo perché temo i tuoi capricci più di ogni cosa.’ aveva detto poi, ‘ma trovo tutto questo ridicolo’. Se lo fosse o meno, non avevo il tempo di domandarmelo e, prima che scoccasse la campana del pomeriggio, eravamo già fuori dalla porta.

La coda della lunga pelliccia della mamma si arrestò, smettendo per un momento di strisciare per terra come una biscia. Allora lei ci squadrò dalla testa ai piedi, muovendo i piccoli occhi verdi a destra e sinistra, lasciandoli salire lentamente verso l’alto. Sapevo che il nostro aspetto era inappuntabile e non mi agitai per quella lenta occhiata, anzi, riconoscendo in lei tutto quello che mi era mancato in quelle settimane, feci per aprire le braccia.

Ma mia madre afferrò i due lembi della pelliccia, sul davanti, e impiegò le mani per stringersela addosso. «Non mi sembra il caso. Dopo il viaggio che ho appena fatto, questa pelliccia potrebbe diventare la cuccia di un cane rognoso. Dovrò bruciarla. Il vostro caro Giolitti pensa a far giocare tutti, in un gran balletto di stramberie, ma no, non ha proprio il senso delle cose pratiche. Dovevate vedere quanto ero sporco il treno, dita di polvere sopra i tavoli e le tendine stracciate. Sembrava un bordello.»

«Mamma! Spero che tu abbia viaggiato in prima classe, almeno.» dissi allora io, guardando di sbieco Luchino che si era frattanto allontanato di qualche metro verso l’acqua.

«Certo. E l’ho pagata una fortuna! Non avrei dovuto; la prima sarà stata uguale alla seconda e la seconda, non diversa dalla terza. Ormai è tutto uguale al resto. Non sono andata a controllare solo perché il vagone ballava a tal punto che mi sarei trovata a faccia in giù, mi fossi alzata.» e sollevò il mento, facendo segno ai facchini di seguirla. Vedendo che quelli si guardavano tra loro dubbiosi, frugò nelle tasche e prese due o tre monete, che ispezionò alla luce prima di distribuirle con cautela. «Dovrebbe bastare.» dissi io, sorridendo per incoraggiarli, «Casa nostra dista pochi minuti, è nel ghetto.» e quelli, rassegnati, presero a seguirci trascinando su un carretto di legno i quattro bauli. «Mamma, preferisci prendere una gondola?» le chiese Luchino, facendole notare che stavano tutte ormeggiate davanti alla stazione, proprio per raccogliere i turisti.

«Neanche per sogno.» Decisa, prese a camminare per prima e, di spalle, precisò; «Sono tutti dei ladri. E poi, io non lo faccio. È roba da balcanici.»

La raggiungemmo a malincuore e iniziammo la nostra passeggiata. Per farle piacere, presi a illustrarle le chiese e i monumenti, capitolando con fierezza tutti i nomi che avevo imparato. Lei seguiva il mio dito e poi distoglieva velocemente lo sguardo. Arrancava sui graditi di ogni ponte e riprendeva fiato attraversando le calli piane. Ansimava a tal punto che ne rimasi sconcertata, avrei voluto chiederle della sua salute, ma non mi sembrava il momento, in più, da quando si era rotta la gamba cadendo dalla scalinata di Palazzo Corsini, era ingrassata ancora. Deve essere difficile camminare con tutto quel peso addosso, non mi posso neanche immaginare ma deve essere davvero impegnativo, pensai, guardando i nomi delle strade per vedere quanto mancasse per arrivare. E se morisse qui? Dovremmo caricare la bara su una barca apposita, di quelle nere con i fiori al posto dei parabordi, e sarebbe terribile, perché a lei le barche non sono mai piaciute. Eppure, osservandola bene, notai che il suo corpo in qualche modo la proteggeva, proprio come un parabordo, e solo il fiato faceva il rumore di una vaporiera mentre il resto resisteva senza incepparsi e la mandava avanti, piano ma inesorabile. Era un vero carro da battaglia. Non avrebbe mai potuto imparare a camminare sull’acqua come noi, valutai tra me, ma di certo avrebbe ancora camminato per parecchio tempo sulla terra.

I facchini ci avevano superati e ora stavano davanti a noi girandosi a volte per assicurarsi che fossimo ancora lì. Superata l’ultima fondamenta, Luchino urlò che avrebbero dovuto girare a destra. «Prendete la calle della Ca’ d’Ambra, il Palazzo è subito sulla sinistra.» e quelli si fermarono un attimo e parlottarono tra loro, prima di proseguire come era stato loro ordinato. Mia madre, oltre ciò che manifestava il corpo, non diede ulteriori segni di sgomento. Anche mentre saliva le scale, non si lamentava e il suo sguardo rimaneva, rampa dopo rampa, imperturbabile.

«Così questo è l’appartamento dove stiamo per il momento.» le comunicò Luchino, il cui solito entusiasmo sembrava svanito quasi completamente. Riflettei che era come quando eravamo piccoli, e lei arrivava, interrompendo i nostri giochi, allora qualcosa si rompeva e all’improvviso tutto quello che stavamo facendo ci appariva ridicolo. E quel pensiero, che tutto in fin dei conti fosse rimasto uguale a prima, stranamente mi rassicurò.

«Vedi, mamma, c’è addirittura un ponte che collega questo edificio al nostro Palazzo come ti abbiamo scritto nelle lettere. Non ti prendevamo in giro! È proprio così.» e la presi sottobraccio nel corridoio, portandola a vedere lo studio di Luchino.

Lei, una volta giunti nella stanza, proruppe in una rauca risata. «Sembra al circo, il tunnel degli orrori. Non avevo mai visto in vita mia una roba del genere.» e lo disse sembrando veramente divertita, sporgendo il collo in avanti per vedere meglio. Anche Luchino, che ci aveva seguite durante quel piccolo tour senza dire una parola, sorrise a sua volta e, felice della sua reazione, andò a prendere dalla scrivania uno dei fogli dei progetti. A me venne un brivido, perché mi riportò alla mente quell’orribile torto che gli avevo fatto … Sapendo già cosa fosse raffigurato nei disegni e non volevo fingere stupore trovai alla svelta un valido diversivo e mi congedai, dicendo loro che sarei andata in cucina a preparare il the.

Attesi dieci minuti controllando che passassero rimanendo ferma, appoggiata al ripiano della dispensa, fissando l’orologio appeso alla parete. Per evitare che il the si freddasse, misi sopra ciascuna tazza dei piattini. Ma dopo un po’, non sentendoli tornare nel salone, presi a preoccuparmi, pensando che comunque, anche con i piattini sopra, si sarebbe tutto guastato. Non potevo certo servire del the freddo, non era stagione e mia madre non me l’avrebbe perdonato.

Allora prima decisi di portare il vassoio sul tavolo del salone e poi li chiamai a voce alta. In risposta, una porta sbatté, facendomi sobbalzare. Poco dopo mia madre apparve nel salone, con il viso torvo di rabbia e, facendo finta di non vedermi, mi superò e andò a sedersi sulla poltrona vicino al divano.

«Cosa … cosa è successo?» domandai io, intimidita da quel repentino cambiamento di atmosfera, mentre a piccoli passi prendevo posto di fronte a lei. «È successo l’inevitabile. In altre parole, semplicemente quello che succede sempre quando metti una persona di buon senso in mezzo ad altre, che non han cervello.»

«Mamma, ma cosa dici? È stato forse Luchino, a irritarti in questo modo?» Presi la tazzina sul vassoio e gliela porsi, e lei la prese con un gesto veloce, facendo cadere alcune gocce sul bracciolo. Poi bevve avidamente e la riposò sul tavolo, vuota. «Irritarmi! Ci vuole ben altro a irritare una donna che ne ha viste tante come me. È lui che si irrita, reagendo alle mie considerazione con l’immaturità di un bambino. Cosa penserà il vostro povero padre, da lassù! Yishtabach!» e guardò in alto, lanciando direttamente al cielo quella benedizione.

Mi sentii di dover insistere e stemperai il tono della mia voce: «Sei sicura di stare bene?» Sapevo che mia madre parlava in yiddish solo in quei momenti dove era veramente arrabbiata e avevo imparato a riconoscere quei momenti proprio dallo yiddish. «Sono sicura di quel che è sicuro. Ma i progetti di Luchino somigliano più alle visioni di un santo, che alle ponderazioni di un mortale. I vetri che vuole mettere nei saloni, solo quelli, ammettendo che si trovino vetri da cattedrale per interni, costeranno una follia. Ma lui non se ne rende conto perché tutto gli è sempre piovuto dal cielo, come il pane dell’Esodo.» fece una pausa, pulendosi gli angoli della bocca con un fazzoletto, poi riprese «Iole tu stai diventando una ragazza a modo e, nonostante tutto, nonostante tutte le sventure che si sono abbattute sulla nostra famiglia e che sono state il volere di Dio, ti ho educata bene ma, e questa è una cosa che non si può inculcare, manchi di volontà.» Io mi ritrassi, appoggiandomi di nuovo allo schienale del divano. Mancare di volontà? Se solo avesse saputo quanto avevo desiderato partire, come avessi realizzato il mio progetto e quanto fosse cambiata la mia vita in quell’ultimo mese, si sarebbe ricreduta. Presi fiato e, non volendo ferirla ulteriormente, guardai in basso e dissi con un filo di voce; «Sto imparando.»

Lei rimase assorta, con i pizzi del lungo vestito che sbordavano dalla poltrona, immobili. Allora aggiunsi; «Non mi è mai sembrato che i soldi per noi fossero un problema, mamma. E tutto quello che fa Luchino, credo sinceramente lo faccia con le migliori intenzioni e senza precludersi la possibilità di cambiare idea. Dagli tempo e vedrai che basterà il suo operato a fartelo rivalutare per intero. Per quanto riguarda me, ti voglio bene, mamma, e sono felice che tu sia qui.»

Non si rallegrò molto ma dall’andamento che prese il suo respiro capii che ero riuscita a confortarla «Domani vedremo questa Ca’ d’Ambra e mi farò un’idea più precisa della situazione. Ora sono stanca. Dì alla cameriera di portarmi la cena in camera. Devo riposare.» Alzandosi, i decori del vestito si distesero smettendo di dare l’impressione di un grosso nodo indistricabile e i suoi passi continuarono a risuonare sul pavimento di legno finché, da lontano, non sentii il rumore di un’altra porta che sbatteva.

L’indomani mi svegliai di buon ora e, mentre ancora tenevo gli occhi chiusi, alle mie orecchie arrivavano i timidi cinguettii dei primi uccelli del mattino. Ero in un remoto paese in bilico sul tropico e fuori dalla finestra mi coglieva la vista allarmante di un oceano, coronato dagli alti cespugli di una palma … scendevo sulla spiaggia e, mettendo i piedi in acqua, avevo l’impressione di essere l’unica donna sulla faccia della terra. Dov’era Luchino? Avrei voluto guardare alle mie spalle, ma non ci riuscivo. Desideravo disperatamente trovarlo ma al tempo stesso sapevo che non esisteva più. Intanto, il mio sguardo rimaneva incollato su quel mare nero che, nonostante l’avvento dell’alba, non si era schiarito. Ero rimasta davvero sola, l’unica donna in vita, sulla terra. I suoni distinti degli uccelli erano così acuti, da percepirgli sul fisico, come fossero beccate. Il paupolo d’un pavone, il gorgheggio dell’usignolo e una famigliola di picchi verdi che rideva, rideva atrocemente, facendosi gioco della mia enorme solitudine. Intanto, succedeva ciò che a volte fa la natura, preoccupandosi sempre di nasconderlo agli uomini così da non urtare le loro certezze e continuare a far credere loro che esistano le leggi fisiche del mondo. Insomma, succedeva che il mare in un punto si apriva, concentrico, ma non a gorgo, per lo più si prosciugava di scatto, creando un buco immobile a pochi metri dalla riva. Ecco che dalla bocca dell’acqua sbucava una colonna, che saliva e saliva, spinta da qualche corrente sotterranea. Prima emergeva il capitello e poi al capitello seguiva il fusto che sopra il bianco del granito era chiazzato di sangue vivo che schiumava fino a trasformarsi in un orribile creatura; un serpente vivo la cui testa era però di pietra e aveva la forma di un leone. Lo stesso della scala! Avevo avuto la prontezza di pensare, prima che questi lasciasse con un balzo la colonna.

M’infilai la vestaglia e corsi fino alla stanza di Luchino. La porta non era più chiusa a chiave, la spalancai e dentro non trovai nessuno. Il suo orologio da polso era poggiato sul comodino e, prendendolo tra le mani, guardai l’ora. Erano le sei meno pochi minuti. Feci retromarcia e percorsi velocemente il corridoio.

«Sei qui! Oh se sapessi … » Luchino non si voltò subito, rimase immobile, seduto al tavolo della scrivania dello studio. Sembrava pietrificato e vedevo da dietro solo il suo contorno scuro, mentre la luce della candela tremolava davanti a lui. «Sono io, Iole.» Ancora non si voltò. Sentivo il fruscio della matita che continuava, imperterrita, a scivolare veloce sulla carta. Forse sto ancora dormendo, dissi tra me, forse anche lui in realtà sta dormendo e non ci sveglieremo più perché, a causa di qualche strana maledizione, il sonno ci ha inghiottiti. O, forse, la mia vita presente era quella di prima, sono ancora su quell’isola e tutto è perduto, mentre questo è il passato, o a sua volta solo un sogno. Quell’ipotesi spaventosa mi spinse ad avvicinarmi, arrivai dietro di lui e feci per toccargli la spalla. Poi mi ricordai che mai, mai, bisogna scuotere un sonnambulo, si sarebbe potuto traumatizzare a tal punto da cadere in uno stato di profonda catalessi e, caso estremo, anche morire. Rimasi a un passo da lui, senza sapere come procedere, con il respiro spezzato e un caldo insalubre che a tratti mi ghiacciava. A un certo punto, oltre la finestra, prese a battere la campana delle sei. Quel suono, ritmato come un tamburo, sembrò magicamente destarlo, perché alzò lo sguardo dal foglio e mi guardò. All’inizio mi fissò intensamente con occhi che non erano i suoi, poi sbatté le palpebre e il suo viso si animò per intero. Lasciò cadere la matita dalla mani. Ma nessuna reazione di sorpresa lo colse.

«Cara sorella. Come mai non dormi? È così presto.» Sorrise e prese il sigaro acceso dal posacenere, avvicinandolo alle labbra. «Quello sguardo lo conosco.» Allungò una mano e mi sfiorò una guancia; «Lo conosco bene. Devi aver avuto un incubo.»

«Luchino … Allora non sei sonnambulo! Sono già qui da un po’ ma tu, non so, non mi sentivi, ti ho chiamato ma tu …» E, sentendo la pressione accumulata sciogliersi e dilagarmi nel petto, proruppi in singhiozzi, coprendomi gli occhi con le maniche della vestaglia. «Iole, piccola mia … Lo sai, ti ricordi anche tu com’era papà quando lavorava. Se un uomo è davvero concentrato su qualcosa non riesce proprio a pensare ad altro. Va tutto bene, solo non ti ho sentita. Forse pensavi di parlare forte, e invece sussurravi. Non piangere, su. Dimmi, invece, cosa ti è apparso in sogno. Per spaventarti così tanto, doveva essere qualcosa di terribile.»

«Infatti era così … era … » Ma mi mise talmente a disagio pensare di nuovo a quell’isola, alla colonna e al serpente che non riuscì a continuare. «Era brutto. Ma adesso che siamo insieme non importa più.»

«Sai, io quand’ero a Roma facevo un sacco di incubi» prese a raccontarmi a voce bassa Luchino, probabilmente per distrarmi, facendomi accomodare sulle sue ginocchia. «Tanti incubi dove c’era nostro padre che tornava a casa e voleva dirmi qualcosa, confessarmi qualche segreto. Ma non ci riusciva, perché quando apriva la bocca per parlare, al posto delle parole, uscivano animali diversi, sempre diversi, a seconda delle volte. E questo sogno mi ha perseguitato per anni, letteralmente, anche quando partivo. Forse ho sempre voluto viaggiare solo per scappare da quel sogno. E finalmente qui, con te, a Venezia, è come se fosse avvenuto un miracolo. L’incubo è sparito. Solo che, a sostituirlo, non c’è nient’altro. Le mie notti sono buie. E terminano proprio qui, dove, giusto per oggi - spero, - è terminata anche la tua.»

A sentirlo, venni presa da una profonda commozione e pensai che avevo sempre considerato mio fratello un tipo allegro, quasi al dì sopra di tutte le cose terrene e grevi mentre in realtà soffriva anche lui, anche se di quel dolore se ne occupava da solo, senza infastidire nessun altro, nemmeno me. Gli passai una mano tra i capelli fini, di un biondo abbagliante, e socchiusi gli occhi. «Io non credo, come la mamma, che papà sia morto per il volere di Dio. Credo che, se dipendesse da Dio, nessuno morirebbe mai.»

«Lo so.» rispose lui, fissando il cielo che si colorava di nuvole chiare «La natura è piena di imprevisti.»

Mi fermai a lungo nello studio e parlammo ancora, finché la stanza non fu invasa dalla luce del nuovo giorno e l’intimità creata dalla penombra venne infine sostituita dalla trasparenza definitiva del mattino. Sussurrando, avevamo pianificato nel dettaglio una vita futura; avevamo deciso insieme i viaggi che avremo intrapreso, le avventure spericolate oltre i confini del mondo civile, le lunghe passeggiate nella giungla e il giro in dirigibile, che sarebbe stato il primo della storia in un paese esotico. Avevamo anche immaginato che non saremmo più tornati indietro perché io sarei stata scambiata da una tribù per una divinità arrivata direttamente dalle stelle e sarei stata adorata notte e giorno, stesa su un letto di salice e midollino, con il privilegio di non toccare la terra con i piedi. Luchino mi sarebbe stato al fianco e sarebbe diventato una specie di paggio celeste, al quale gli indigeni si sarebbe rivolti solo danzando in cerchio durante il plenilunio. La nostra esistenza sarebbe terminata così, dimenticati da tutti quelli che conoscevamo. La mamma e gli amici dopo anni di tentativi ci avrebbero dati per dispersi e a un certo punto avrebbero smesso di cercarci. Ma saremmo stati fino all’ultimo molto felici e avremmo impiegato tutte le nostre forze per salvare gli spiriti della tribù dagli atroci pericoli della natura. Per ringraziarci, le donne e i bambini avrebbero scavato delle buche piene di fiori, nella terra dove la foresta confina con l’oceano, e ci avrebbero seppelliti vicini, all’ombra di una gigantesca sequoia.

Mentre Luchino mi descriveva il funerale regale che si sarebbe tenuto nel villaggio per la mia morte, sentimmo i passi della mamma echeggiare nel corridoio e vedemmo, dalla porta semi aperta, le luci che si accedevano una dopo l’altra. Allora, con fare precipitoso, ci alzammo. Uscendo da quella sfera di intimità realizzai di essere ancora in vestaglia, scalza e con i capelli raccolti in due trecce ormai del tutto informi.

«A che ora hai dato appuntamento all’architetto?» domandai brusca a Luchino, che intanto si muoveva per la stanza più lentamente di me, con la giacca da giorno sottobraccio.

«Tra mezz’ora.» Quando cominciò a chiudere il primo bottone, io mi ero già catapultata fuori dallo studio. Avevo meno di venti minuti per vestirmi, cambiare pettinatura e rendermi presentabile per quell’incontro che, conoscendo la mamma, sarebbe stato alquanto imprevedibile.

Mi affrettai e riuscii a fare tutto nel tempo prestabilito, tardando solo di qualche minuto. Stranamente, quella notte così travagliata non mi aveva lasciato segni, mi sentivo invece molto distesa, animata da un’eccitazione particolare. Andai in salone e trovai mia madre e Luchino, seduti in silenzio. Qualcosa sembrò cambiare in loro quando mi videro entrare.

«Iole, cosa ti è successo? Sembri su di giri.» Mi disse mia madre, guardandomi di sottecchi. Era sempre stato così, le bastava un’occhiata per leggermi nel pensiero. È proprio vero, riflettei tra me, Dio sapeva di non poter essere ovunque e per quello ha creato la madre. Rivolsi un sorriso d’intesa a Luchino, poi mi avvicinai a loro, ondulando i fianchi, facendo muovere avanti e indietro l’orlo rosso della gonna.

«C’è che questa visione, di voi due insieme qui, mi fa enormemente piacere. In più, oggi mi sento benissimo. È una giornata magnifica, soleggiata, come quelle che piacciono a me.» E andai vicino al tavolo versandomi dalla caraffa, in cui galleggiavano fette di limone, un bicchiere di acqua fresca.

Mia madre aveva un’aria severa e sembrò immediatamente infastidirsi: «Io invece ho avuto una notte da incubo. Mi sono rigirata nel letto fino alle ore beate. La gamba mi faceva un male terribile.» Allora Luchino posò il libro che teneva tra le mani - e che fino a quel momento aveva fatto finta di leggere con enorme interesse - e iniziò a parlare con tono inaspettato e dolce; «Mi dispiace, mamma. Forse, allora, dato il tuo precario stato di salute, sarebbe azzardato andare a vedere il cantiere proprio oggi. Forse, potremmo rimandare a…» Ma lei non aspettò che terminasse; «Non rimanderemo proprio un bel niente. A differenza vostra, che se state qui o altrove è la stessa cosa, io ho delle faccende molto importanti che mi aspettano a Roma. E poi, si dà il caso che mi senta sempre così, e che la gamba mi faccia sempre male allo stesso modo. Quindi, se fosse oggi, domani o tra un mese intero non credo cambi proprio niente.»

«Va bene.» disse allora Luchino, secco. «Va bene. Preparatevi allora. L’architetto ci aspetta di sotto.» Si alzò, prendendo il cappello e la giacca dall’attaccapanni nell’andito e, con nostro grande stupore, sbatté la porta precipitandosi giù dalle scale.

Mia madre alzò gli occhi al cielo mentre io, mortificata, non sapevo che dire. Anche se Luchino era entrato spesso in conflitto con lei, aveva sempre cercato di gestire il suo disappunto senza compiere gesti così irrispettosi. Poche volte li avevo sentiti gridare e quasi mai litigare apertamente, la lotta che portava avanti mio fratello a Roma, era una lotta giocata con il silenzio e con piccoli atti di disubbidienza commessi di nascosto, lontano da lei e di cui lei raramente veniva a conoscenza.

Senza rivolgerci la parola, ci preparammo a scendere. Sentivo, pur camminando davanti a lei, che mia madre a volte prendeva a borbottare ma, quando mi giravo, faceva finta di niente e inclinava la testa verso il fondo della tromba delle scale. Uscite nella calle, trovammo a mezza strada tra il nostro ingresso e quello della Ca’ D’ambra Luchino e l’Architetto, l’uno appoggiato al muro con le braccia incrociate e il viso esposto al sole, l’altro nella zona in ombra, vestito con il solito cappotto monopetto di lana marron e lo sguardo rivolto in alto, intento a scrutare il colore del cielo.

Li raggiungemmo. Nella calle stretta, per metà soleggiata e per metà ombrosa, ci furono le presentazione e i primi convenevoli. Mentre si stringevano la mano mi sembrò così strano vedere mia madre insieme al signor Polo. Nella mia testa i due appartenevano a territori ben distinti, divisi da un confine netto. Sapevo che prima o poi si sarebbero incontrati, non avevo comunque messo in conto la possibilità effettiva che questo si sarebbe verificato per davvero. Avevo fatto conoscenza con Polo nel periodo in cui era nato in me il desiderio di vivere lontano da mia madre, ed era come se il passato e il presente ora si fossero sovrapposti in una situazione che tradiva il corso naturale delle cose, almeno per quella che era la mia percezione della vita.

L’Architetto non aveva mancato, ancora una volta, di adottare un approccio distaccato, gentile e al tempo stesso imperturbabile. Stringendole la mano, aveva mantenuto la stessa espressione che aveva mentre poco prima scrutava il cielo, che poi era la stessa di quando sceglieva un piastrellato o di quando, finiti i nostri pranzi, si apprestava a uscire dal Palazzo.

«È una fortuna, Signora, che lei veda la Ca’ D’Ambra per la prima volta in una giornata bella come questa. Quando il sole batte sulla casa, il bianco delle pareti esterne assume una sfumatura aranciata.» e, stringendo i piccoli occhi neri finché non diventarono sottili come fessure, alzò il braccio, indicando l’ultimo piano del palazzo che faceva capolino da dietro il muro della calle. «Aspetti, da qui si vede poco. Dovremmo andare laggiù, sul banco della fermata del vaporetto.»

Stranamente mia madre non appose resistenza, anzi, lo seguì con curiosità fino al fondo della strada e poi salì sulla passerella di legno. Io – che la conosceva a fondo – sapevo che stava aspettando che il Signor Polo commettesse un errore o una svista. Lo lasciò quindi proseguire nella sua spiegazione; «Guardi. Si vede ancor meglio sulle volte, perché la pietra si è mantenuta più chiara. Ecco, da quelle misteriose sfumature viene il nome del Palazzo. Nessuno si è mai riuscito a spiegare come mai. Uno scienziato, un certo Gilbert, un parigino che aveva dedicato tutta la vita alla gemmologia, alcuni anni fa cercò di risolvere l’enigma. Aveva fatto il diavolo a quattro, in comune, per prendere un campione di pietra direttamente dalla facciata e farlo analizzare nel suo laboratorio. Era tornato dalla Francia entusiasta. Sosteneva ci fosse davvero dell’ambra, all’interno della pietra, magistralmente fusa con il granito. Se fosse così, come diceva il Signor Gilbert, che Dio ce l’abbia in gloria,» si toccò velocemente il piccolo crocifisso dorato che teneva al collo «Si spiegherebbe come mai la facciata cambi colore. L’ambra è l’unica pietra ad avere note proprietà magnetiche, in poche parole, assorbe tutto quello che può, compresi i raggi del sole.»

Era la prima volta che sentivo quella storia e ne rimasi affascinata. Mi ricordai che ci volevano almeno due milioni di anni perché la resina fuoriuscita dagli alberi si solidificasse fino a pietrificarsi, diventando di quella diafanità che ora mi si palesava davanti agli occhi; un colore tra il rosso e il marrone che sembrava mutasse in continuazione e che dava alla casa una fluidità sulla quale non mi ero mai soffermata. Qui c’è la traccia di un tempo così remoto, pensai, che se la casa potesse parlare racconterebbe la storia del mondo.

Continuando impassibile a guardare la facciata, mia madre si rivolse al Signor Polo; «A lei non sembra instabile, dico, non le sembra che tutto l’edificio potrebbe crollare da un momento all’altro?»

Luchino si fece avanti di scatto e, appoggiandosi alla ringhiera tra me e mia madre, intervenne, prima che l’Architetto potesse formulare una risposta adeguata; «È un palazzo del quattrocento, mamma.»

«E allora? Casa nostra a Roma non credere che sia tanto più giovane. Eppure, non si erge di certo su una palafitta di legno che, chissà da quanto, non viene controllata.»

Tutti tenevano il viso rivolto verso l’acqua. L’architetto stette un po’ a riflettere; «Considerando che l’alveo dei canali potesse essere eroso dalle maree, perché quei basamenti sono piuttosto sottili, le case non sono state costruite sulle loro stesse fondamenta. Ogni edificio di questa città, soprattutto quelli più pesanti, quelli sul Canal Grande, ha la sua base che è stata pianificata come il Signore ha pensato allo scheletro dell’uomo, in un frangente – è chiaro - dove non si poteva permettere errori.» muovendosi piano si ritrasse dalla balaustra e mia madre e mio fratello tornarono a guardarlo. Io feci lo stesso, lui dopo una breve pausa seguitò; «In questa città l’apparenza è delle più ingannevoli. La sua domanda è più che lecita, Signora Moretti e sono d’accordo con lei; la Ca’ D’Ambra sembra poter volare via al primo soffio di vento. Ma adesso che la vedrà da dentro, sentirà la sua forza e, insieme a questa, la sua volontà di resistenza.»

Sul viso di Luchino era tornata la vecchia eccitazione, ispirò profondamente e ancora una volta si spinse verso la ringhiera, vi si appoggiò e rivolto alla facciata disse; «Tu sei vivo fuoco.»

Poco dopo eravamo nella corte del palazzo. Mio fratello non smise per tutta la visita di tenere alto il tono del suo umore, le parole dell’Architetto avevano esercitato su di lui un effetto notevole. Ha trovato modo, pensai io, di non farsi scoraggiare dall’atteggiamento della mamma. Anche la vista straordinaria di quei colori sotto il sole mi sembra abbia contribuito a fargli recuperare tutto il vigore, tutta la speranza. Intanto, immersa in quella riflessione, arrancavo dietro la piccola comitiva.

Per quanto mi sforzassi, non riuscivo comunque a evitare di farmi toccare dalle critiche di mia madre. A un certo punto, mentre guardava sdegnosa il foro del pozzo, mi venne persino il brutto pensiero che avesse ragione; forse tutto quello che vedevamo in quella casa era un’illusione, la sua bellezza non esisteva e si riduceva in realtà a una vecchia palazzina inaccogliente, con problemi statici e grandi spese di manutenzione. Per tutta la durata della visita, che si estese dal giardino, al piano nobile e poi su, nelle soffitte, la mia mente continuò a tornare al foro del pozzo; dove avremmo potuto rimediare una vera per coprire quel buco? Dovevamo trovare una soluzione il prima possibile perché una trappola mortale come quella in una casa non poteva proprio esserci e poi, oltre alla sua pericolosità, era anche esteticamente molto sgradevole, cupa e avrebbe potuto accumulare sul fondo strati di fogliame e sporcizia.

La prima cosa che turbò mia madre fu lo sbocco sul canale. Non appena fummo nel corridoio esterno, dove il suono dell’acqua si amplificava, gorgogliando e battendo, si toccò tre volte la spilla con lo scudo di David appuntata sul petto della pelliccia, poi disse; «Sembra di stare dentro la bocca di una balena.» Girandosi verso di me, rivolgendomi i piccoli occhi verde uvaspina, mi prese per mano e aggiunse; «Non so cosa potrebbe capitare qui, se venisse acqua alta. Un’amica veneziana che avevo ai tempi del collegio mi raccontava di notti spaventose in cui, improvvisamente, le sirene di emergenza della città iniziavano a suonare fortissimo e le strade iniziavano a inondarsi. Lei si rifugiava ai piani alti, ma chi viveva vicino all’acqua doveva scappare verso Mestre, o nei sestieri dove la città è più alta. Le persone, al mattino, trovavano i loro appartamenti distrutti. E poi, nei giorni a seguire, i veneziani soffrivano in massa di atroci problemi di salute perché l’acqua era fredda e torbida. Portava le malattie.»

«Non lo sapevo.» risposi, stupita. Irritata dal fatto che l’architetto non avesse nemmeno accennato a quella possibilità, gli chiesi; «Signor Polo, come dovremmo comportarci in un caso come questo? Sarebbe senza dubbio pericoloso, per noi.»

«No, per nulla. La Ca’ D’Ambra sembra proprio realizzata per fronteggiare al meglio un’eventualità del genere; gli spazi aperti, la sua capacità di accoglienza e di rilascio … Certo, i problemi di Venezia in quei casi, sono noti a tutti e tutti, quindi, dovrebbero tenerli in considerazione. Ma lei, Signorina Moretti, non dovrebbe temere.» Prese con un dito a scrostare il muschio da una delle colonne e poi aggiunse; «L’acqua dei canali fa anche piccoli miracoli.» e mostrò a tutti una piantina con un fiore giallo che veniva fuori da una crepa all’angolo dell’ultimo gradino.

«E l’umidità?» fece mia madre quando salimmo al piano nobile. «Va bene nel giardino, o nelle soffitte. Ma i piani principali dovrebbero avere dei sistemi. Tu, Luchino, a questo non avrai pensato ma Iole è molto cagionevole.»

«Figurati se non ci ho pensato! È tutto ancora da sistemare, mamma. Vedi, tu, se posso permettermi, non hai mai avuto grandi capacità di visione. Forse, quella è più cosa da uomini» e ammiccò veloce a Polo «perché mi ricordo quello che raccontava sempre papà, quando aveva ereditato dal nonno il terreno in Sicilia … che tu dicevi che era troppo scosceso e che non si sarebbe potuto costruire niente. Invece poi, la casa che aveva progettato era stupenda, non l’avrebbe abbattuta nemmeno un terremoto, e tu, devi ammetterlo, eri rimasta stupita. Ci andavamo sempre. E ti piaceva.»

Mia madre sembrò ignorarlo, imboccò l’infilata delle stanze e disse ancora due o tre volte; «Un’umidità del genere non si è mai vista.» L’eco dei suoi passi risuonava sui soffitti e faceva tremare le cornici tarlate di tutte le finestre. Si allontanò fino al ponte coperto e vi entrò dentro. Il suo corpo sparì inghiottito. Sperai che avremmo trovato presto una vera da pozzo da mettere sopra quel buco.

Cercammo un posto dove pranzare. Luchino aveva chiesto al Signor Polo di rimanere con noi e lui aveva acconsentito. D’altronde, non era una novità dal momento che era abituato a dedicarci le sue giornate fino a metà pomeriggio. Iniziammo a camminare nelle strade del ghetto mentre la gente si riversava a fiumi sulla Strada Nova, fermandosi davanti alle vetrine illuminate dei negozi. La domenica Venezia, con lo scrosciare festoso delle sue campane, somiglia a un servizio da tè che vibra su un grande vassoio. Alla stessa stregua – pensai, passando davanti a un gruppetto di anziani seduti su una panchina - non importa quanto le persone siano in grado di gioirne, è un piacere in qualche modo contagioso e tutti ne restano coinvolti. Mentre proseguivo, prendendo il ponte de Chiodo, da cui si vedeva fare capolino la Scuola grande di San Rocco, la città mi concedeva il lusso di sperare e usavo quella speranza per presumere il mio futuro; una festa senza fine in quella scenografia di porcellana, dove le cupole di zinco erano tazzine capovolte e i profili dei campanili in bilico tintinnavano come cucchiaini d’argento. Una colazione da Re.

Girammo verso la piazza principale, attraversandola. Là, i rabbini tenevano la lezione all’aperto attorno a tavoli di legno, davanti alla sinagoga. I ragazzi stavano in cerchio, avevano sul volto un accenno di barba e i cernecchi, corti e ricci, arrivavano a tutti alla stessa altezza, quella delle guance. Vicino, sul muro del negozio di animali, stavano appese le gabbie dei canarini, i quali per passare il tempo cantavano di gusto. Quando il rabbino smise di leggere la pergamena, anche gli allievi intonarono un canto. Dalle poche parole che capii, credo celebrasse il giardino di Yahweh, l’arrivo nell’Eden di Adamo e Eva.

Il posto dove ci portò Luchino stava appena fuori dalle vecchie mura del ghetto, sulla Fondamenta di Cannaregio. Davanti al canale stava un dehors, con una decina di tavolini sistemati vicino alla scalinata del Ponte delle Guglie. Oltre all’acqua, sorgeva Palazzo Venier-Manfrin, i cui riflessi di pietra candida si muovevano appena, come le ali di una colombella. A mia madre il posto piacque molto. Mio fratello l’aveva scelto perché sapeva che si consumavano i migliori cibi kosher di tutta Venezia.

Mia madre si sistemò a sedere, togliendosi la sciarpa dal collo e asciugandosi la fronte con la mano destra. «Spero non le dispiacerà, Architetto. Mangiare qui.» Teneva gli occhi fissi sul menù.

«Oh, affatto. Sono abituato ormai. Tutti i giorni Iole ci porta alla corte questo genere di pranzi. Mi piace molto. Tutto quello che riguarda l'ebraismo, mi ha sempre affascinato.» Si appuntò il tovagliolo al collo e anche lui, di rimando, passò in rassegna i piatti.

«Ma senta …» iniziò a dire mia madre, che aveva già cominciato ad accigliarsi quando l’architetto aveva accennato al fascino ebraico. «Lei dove abita? Voglio dire, da quello che mi dicono i miei figli, sembra che stia giorno e notte dentro la Ca’ D’ambra. Suppongo non sia così.»

L’architetto a quella domanda sembrò irrigidirsi, ma poi sentii lo stesso soffio di vento investire anche me. Mi portai la mano al petto. Lui rispose tranquillo; «Ho un alloggio. Proprio di fronte alla Ca’ D’ambra. Affaccia sul Canale, e oltre il Canale vedo la Ca’ D’Ambra dalla finestra. Ci vivo solo. La luce che mi arriva in soggiorno non è quella del sole, che batte spesso dall’altra parte, ma quella che la facciata del vostro Palazzo riflette sulla mia, non è buffo?»

Fu in quel momento che sentimmo qualcuno chiamare me e Luchino. Nel tavolo dietro al nostro, sedevano tre uomini e una donna. Girandomi potei vedere meglio di chi si trattava; l’avvocato Carraro agitava le mani in segno di saluto. Era già lì quando eravamo arrivati? Non riuscivo a ricordarmelo, a volte situazioni come quella mi rendevano consapevole della mia mancanza di attenzione. Con la faccia paonazza, più colorita di quando eravamo andati nel suo studio, sembrava stesse presenziando a una piacevole riunione. La signorina di fronte a lui, che prima ci dava la schiena, si voltò di tre quarti. Era minuta, diafana, avrà avuto poco più di vent’anni e faceva intravedere un viso tondo da bambola russa sotto a un vistoso cappellino con una piuma. Al suo fianco stava un uomo sulla sessantina, pingue, con radi capelli bianchi, un pizzetto di barba e due folti baffi ungheresi che puntavano verso l’alto. Portava una giacca molto elegante e minuscoli occhiali tondi da cui guizzava uno sguardo assai intelligente e pronto.

«Quello non è Doloso, il famoso alienista?» mi sussurrò all’orecchio mia madre, riferendosi proprio a lui. Allora mi ricordai di avere già visto quel volto su alcune riviste scientifiche di Luchino e mi venne in mente una singolare fotografia, dove proprio quell’uomo – che ora pranzava davanti a me in un ristorante come tanti altri- stava a fianco a una donna, davanti a un tavolino che librava a mezz’aria. Annuii senza guardarla, per non dare nell’occhio.

Luchino si alzò e con grande energia si avvicinò al loro tavolo. «Avvocato, quale piacere! L’ho pensata molto, da questa estate. Lei è la persona grazie alla quale il sogno si è realizzato.»

«Ho sentito … ho sentito. L’avete acquistata dunque.» e mentre diceva così fece un cenno di saluto al Signor Polo, il quale ricambiò discreto.

Intanto, l’altro Signore seduto vicino a lui ci fissava silenzioso. Da quello che intuì osservandolo – biondo, occhi azzurri, portamento glaciale – doveva essere il tedesco, il proprietario della casa di Carraro; il Signor Faifofer, quello delle riunioni del martedì.

Si presentarono entrambi ed ebbi la conferma di ciò che avevo immaginato. La donna, invece, disse di chiamarsi Eugenia. Sembrava a disagio con loro e forse addirittura imbarazzata; oltre al cappellino, il suo abbigliamento era povero e aveva uno sguardo trasognato, connotato da una strana fissità. Pareva essere per metà assente. Pensai che il suo gracile corpo poggiato con grazia sulla sedia si sarebbe potuto sollevare per intero da quanto aveva l’aria d’essere leggera. Taceva.

Mia madre, divertita da quell’incontro inaspettato, incalzò subito il professor Doloso; «Di lei ormai si legge dappertutto! Tutti quei salotti, quelli spettacoli attirano l’attenzione dei più.» Sapevo che lei aborriva certi progressi della scienza e reputava blasfeme tutte le novità che leggeva sulla disputa della morte e della colpa. Lo stava provocando.

«A ciascuno è destinato il suo giorno.» tagliò corto lui, senza sorridere. Luchino invece tentò di simpatizzare; «Io trovo che grazie a lei si stiano facendo passi straordinari. È riuscito a trovare la chiave per aprire porte inaccessibili. Sono un suo grande estimatore.»

Il professore estrasse dal taschino un sigaro e lo accese. «Ah l’entusiasmo dei giovani …» sospirò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Intanto il Signor Carraro si agitava e, sempre in piedi, non riusciva a smettere di muovere le mani, animato dalla sua solita impazienza. «Vi inviterei a sedervi al nostro tavolo, ma abbiamo preso appena adesso il caffè. Tra poco meno di un’ora dobbiamo essere dall’altra parte della città.»

«Oh non si preoccupi» dissi io, «per noi è stato un piacere incontrarla.»

A quel punto si alzarono tutti e si prepararono ad andarsene. Il tedesco ci salutò e così fece anche il professor Doloso; «Continui a incuriosirsi. Lei mi sembra un ragazzo vivace.» fece a Luchino, stringendogli la mano. Stava per fare lo stesso con me, quando Faifofer richiamò la sua attenzione. Luchino aveva appena terminato il bacio a mano a Eugenia quando questa ricadde sulla sedia dalla quale si era alzata. Il suo corpo, che prima sembrava così vacuo, si fece rigido come ferro. I suoi occhi rosseggiarono, animati d’improvviso da una vitalità dionisiaca, irrefrenabile; le pupille si agitavano nell’orbita bianca. I tre uomini accorsero e Doloso estrasse dalla stessa tasca del sigaro un taccuino.

La ragazza prese a gorgogliare e dalla sua bocca uscirono due o tre rantoli prolungati e rauchi, poi parlò; «Vivo fuoco. Vivo fuoco. Il sottosuolo del palazzo …» prese a dire «C’è il sottosuolo, oltre il pavimento.» Si portò le mani al collo, come fosse intenta a liberarsi da una stretta mortale. «Annego!» Gli occhi di Eugenia girarono su loro stessi, pose le mani sul tavolo e afferrò con le unghie la tovaglia, tirandola verso di sé. Cadde per terra un cucchiaio, poi si infransero al suolo il bicchiere e la tazzina. Faifofer si precipitò verso di lei, poggiandole le mani sulle tempie. «Eugenia, mi senti? Dove sei?»

Io ero impietrita, pensai che si sentisse male, che avesse un attacco di nervi, un principio di epilessia e che da lì a poco sarebbe morta, di domenica e per giunta lì in strada, davanti a di tutti. Non avevo mai visto nessuno versare in una stato come quello. La testa iniziò a tremarle mentre il busto rimaneva immobile. Con il fiato sospeso restammo a guardarla per alcuni secondi finché piegò il collo in avanti. Temetti si potesse spezzare in due, invece rialzò con uno scatto la testa liberandosi del cappellino. «Sono nella pietra viva. I complici del Diavolo sono tra di noi. Camminano sul vivo fuoco. Mi portano nel sottosuolo … Il sogno, ahimé! Ahimé!» Allora un’espressione di marcato terrore si dipinse sul suo volto. «Lasciate questa città! Scappate! Scappate!»

La sedia si mosse avanti e indietro tre volte, spinta dalla forza che Eugenia esercitava sul pavimento con i piedi. Poi lanciò un urlo acuto, e svenne.

Intanto l’acqua che scorreva nel canale trascinava chissà dove la piuma e il cappellino.

CAPITOLO QUINTO

Il giorno successivo mia madre prese il treno e tornò a Roma dove a detta sua l’aspettavano impegni improrogabili. Prima di partire, ci mise in guardia su alcune questioni; convocò me e Luchino in soggiorno e ci ammonì severamente. ‘’Non posso evitare che percorriate la via del Destino che vi siete scelti. Non posso neanche escludere che sia il Destino ad aver scelto voi, e non il contrario. Quindi, anche se vi sentite sicuri come dite, non ignorate nessun segno, perché lì potrete scorgere il pericolo.’’

A differenza di Luchino, avevo prestato ai suoi consigli la mia totale attenzione. Sapevo che mia madre non avrebbe mai fatto nulla per rendermi infelice. Le sue prediche servivano a tutelarmi da un possibile dispiacere.

Dopo il pranzo al ristorante, avevamo discusso sull’incontro con l’avvocato Carraro e sul comportamento strabiliante di Eugenia. Anche se poi si era riavuta, senza dare ulteriore segno di squilibrio, non riusciva a ricordarsi niente di quello che le era accaduto, né tantomeno la motivazione di quelle parole minacciose che aveva rivolto a tutti noi in stato di delirio. Luchino e il Signor Polo si trovavano d’accordo; doveva trattarsi di isteria.

L’avevano letto entrambi su un libro di un certo Dottor Freud, un viennese che di strambi se ne intendeva: l’isteria è un disturbo che si manifesta quando l’instabilità emotiva è talmente grave da produrre effetti destabilizzanti anche sul corpo. L’attacco epilettico, i tremiti, tutti i sintomi rientravano nella diagnosi di Eugenia. In una persona come lei, la malattia mentale si prendeva gioco del fisico ed emergeva senza preavviso e senza lasciare traccia permanente. Dall’esterno, poteva sembrava ‘in comunicazione con altri piani’, poteva dare l’impressione di essere una strega o quella, non peggiore, di sentire le voci dell’inferno. In realtà quel delirio poteva essere causato da un gioco sfrenato di nervi, comandati dall’interno come burattini. A volte si comportava come una donna normale ma quando la coglieva un attacco, ecco che balzava fuori la malattia latente. Per questo - aggiungevano loro - un caso del genere era oggetto di studio del professor Doloso. Senza dubbio, ne stava analizzando il comportamento per raccogliere materiale e concludere il suo studio sulle patologie femminili, problemi che lo interessavano ormai da tempo. Questa spiegazione del comportamento di Eugenia era razionale e molto all’avanguardia, al passo con le nuove scienze. Per questo probabilmente mia madre la rifiutò. Lei, che non credeva ai medium e neppure agli spiriti, fu la più toccata da quell’esternazione di pazzia. Affermava che anche se i fantasmi non esistevano, e non potevano esistere, perché ascendevano al paradiso, oppure sprofondavano nel mondo sotterraneo, le forze oscure popolavano la terra anzitempo e passavano i loro messaggi approfittandosi delle menti più deboli. Da lì, nacque in lei una forte preoccupazione di cui non si liberò nemmeno la mattina seguente dopo una buona notte di sonno. Nonostante le rassicurazioni molto logiche di Luchino e del Signor Polo, continuò a insistere, pregandoci di fare attenzione e di non abbassare mai la guardia. Anche io pensavo che non era mai certo se le cose capitassero per un motivo o per un altro e questo valeva soprattutto per le manifestazioni misteriose del pensiero e dello spirito. Si sa, se tutti andassero in una direzione certamente il mondo si sarebbe già ribaltato, e noi saremmo tutti a testa in giù, senza più terra sotto i piedi. Quindi optai per non escludere nessuna possibilità e, dopo avere fatto tesoro delle raccomandazioni di mia madre, la salutai con grande dispiacere sperando non trascorresse molto tempo prima di rivederla.

Il suo treno si allontanò, sfiatando lungo il binario, e si diresse spedito verso il ponte che collegava Venezia con la terraferma e con il resto del mondo. Presto, io e mio fratello saremo ritornati alla vita di prima. Eravamo riusciti a superare quella prova con buoni risultati, mai come prima avevamo dimostrato a nostra madre di essere diventati adulti. L’aveva detto anche lei; ‘’Non posso evitare che percorriate la via del Destino che vi siete scelti.’’ In quella frase stava la dichiarazione ultima del nostro libero arbitrio. Mentre il vagone di prima classe in cui sedeva percorreva a ritroso il cordone ombelicale che ci univa a Roma, il filo si era ormai spezzato e niente sarebbe più stato lo stesso. Un nuovo spazio. Tra noi e lei vedevo aprirsi un varco luminoso.

Non appena il treno sparì, fu definitivo e mi sconvolse; non avrei mai più fatto ritorno a casa somigliando alla ragazza di un tempo. Addirittura i miei ricordi si allontanavano da me, restavano indietro, sbiadivano. Una nebbia avvolgeva quei pomeriggi senza fine in cui lustravo gli antichi servizi da tè, spolveravo i ritratti dei nonni, e guardavo – sempre da lontano – le ragazze passare sotto la mia finestra, allegre, mano nella mano con qualcuno che sembravano amare. Non mi ero illusa; per me sarebbe stato impossibile vivere una vita simile alla loro. Non ne ero tagliata.

Da quando mio padre era scomparso, a casa nostra si celebrava senza interruzione la sua cerimonia funebre. Non invitavamo più ospiti e non festeggiavamo mai nulla, nemmeno i compleanni. Le giornate non si somigliavano solo tra loro, bensì sembrava ripetersi sempre la stessa. Il tempo si era fermato nell’esatto momento in cui era giunta la tragica notizia della sua morte. Avevo undici anni, Luchino sedici. Da quel giorno, l’immaginario di cui ci aveva fatto dono nostro padre divenne il nostro passatempo e quel passatempo, presto finì per includere ogni aspetto della nostra vita. Mi chiedevo se le ragazze che vedevo dalla finestra mi avrebbero potuta accettare lo stesso. Un giorno mia madre oscurò con pesanti tende di broccato tutte le finestre della casa.

Anche quando era vivo, mio padre era sempre altrove. Un altrove meraviglioso fatto di telegrammi da città dal nome impronunciabile, grovigli di consonanti scolpiti sulla groppa dei mappamondi, lettere sulle quali facevano bella mostra di sé francobolli colorati con uccelli e animali favolosi, messaggi di cortesia dalle ambasciate sparpagliate nei posti più improbabili che annunciavano: “ … il Professore sta bene e ci prega di comunicarvi che intende proseguire verso l’interno con trenta portatori e una squadra di lanceri …” , fotografie spedite da alberghi da sogno con sale scure e fumose, popolati da spie e donne fatali, colonnelli inglesi e ingegneri delle ferrovie.

Mio padre ci teneva legati al mondo intero con i suoi viaggi finché a un certo punto quel legame smise semplicemente di esistere. La notizia ci arrivò dal Ministero degli Esteri, giunta fin lì sigillata in una valigia diplomatica: “ Siamo dolenti informarvi che il Professor Moretti è deceduto questa mattina. Le circostanze della scomparsa ci vengono comunicate dalle Ferrovie Ottomane che segnalano l’attacco di uno dei loro convogli da parte di non meglio precisate bande beduine. Questa Ambasciata porge le sue più sentite condoglianze.”

Ignoravo se mia madre l’avesse mai perdonato per essersi spinto in un luogo così pericoloso. Era tipo da cogliere la propria sorte impreparata e forse anche lei, la sorte, non era riuscita a perdonarlo. Il mondo è un mare burrascoso, tanto che perfino le tribù più coraggiose hanno sempre da qualche parte un punto da non superare. Ma mio padre era andato oltre, perché lui era un uomo smemorato e dimenticava spesso le cose più importanti.

Diedi le spalle al binario e guardai Luchino che sedeva a gambe accavallate sulla panchina della stazione. È proprio vero che i morti vivono riflessi sulle facce dei vivi ed è altrettanto vero che nelle grandi famiglie sono proprio i vivi a essere l’ombra dei morti. Mi chiesi se i figli fossero più avanti dei loro padri, se l’evoluzione aggiungesse qualcosa, una maggiore intelligenza o un istinto innato a non commettere gli stessi errori. O se, al contrario, il tempo inquinasse il sangue.

«Vedere partire quel treno,» iniziò a dirmi Luchino «mi ha fatto pensare alla vita che passa. Le stazioni mi fanno sempre questo effetto. Mi fanno relativizzare le cose. Sarà per tutta questa gente che va e che viene, senza lasciare traccia. Se lassù esiste davvero un creatore ha fatto troppi figli. Ha fatto troppi treni.»

Mi sedetti vicino a lui e appoggiai la testa sulla sua spalla. Un altro convoglio, venuto da chissà dove, diretto verso chissà quale altra città, aveva occupato il binario alzando una nuvola di polvere. «Che stranezza. Anch’io pensavo a cose simili. Però la storia dei troppi figli la trovo un po’ sacrilega. Torniamo a casa?»

Ci alzammo e attraversammo il ventre della stazione. Al suo interno le persone camminavano svelte, agitate, e notai che vestivano più o meno tutte alla stessa maniera, si muovevano alla stessa maniera, fossero italiane o straniere. Era come se riuscissero a sentire tutti la stessa voce, una voce paterna che diceva loro come dovevano comportarsi per stare al mondo. Ubbidendo ai dettami della voce parevano essere tutelati, o salvi. Ancora in vita. Per la prima volta mi venne in mente che potevamo essere io e Luchino i fantasmi che Eugenia aveva visto. Forse anche la mamma era morta e l’architetto poteva essere addirittura venuto a mancare secoli prima, per quello poteva parlarci e farci da guida nel mondo dei trapassati, nell’universo degli invisibili, in giro per le stanze della Ca D’Ambra.

Papà magari era l’unico superstite.

Camminavo stringendomi sempre più al braccio di Luchino mentre la folla proseguiva per la sua strada. Quell’eventualità – che noi fossimo tra loro, ma su un altro piano, quello dell’oltretomba - mi divertiva ma non la condivisi con Luchino, perché sapevo che non sarebbe stato pronto ad accertarla, nemmeno come ipotesi. Per quanto i fratelli tanto affezionati possano somigliarsi tra loro, lui per certi versi era molto diverso da me; voleva lasciare a tutti i costi qualche traccia sulla terra.

Mi sporsi in avanti per vedere se arrivava il vaporetto, poi mi ritrassi e abbassai lo sguardo all’acqua. Piccoli pesci nuotavano in cerchio sotto la palafitta. «L’altro giorno una questione ha iniziato a tormentarmi ma c’era ancora la mamma e ho preferito non dirti niente.»

«Quale questione, cara sorella?»

«La vera da pozzo. Dobbiamo trovare una vera da pozzo, magari tutta fiorita, come quella che avevamo visto insieme in campo San Polo. Dobbiamo trovarla perché sai … io quel buco in casa non lo voglio più.»

Luchino calciò nel canale una pietruzza, i pesci si ammassarono intorno all’acqua increspata. Quando sprofondò, si dileguarono veloci e ruppero le fila. «Certo. Potrai occupartene tu personalmente se vorrai.» Alzò il capo e sul suo viso apparve un’espressione di pura gioia. Guardava verso la chiesa di San Simeon, sulla quale si scorgeva la piccola sagoma di un uomo con in mano un attrezzo. Puliva il basamento della cupola.

«Per me è venuto il momento di pensare al pavimento della corte.» disse Luchino e io venni investita dall’improvvisa paura che quella frase potesse sconvolgere l’ordine delle cose, arrivare come una freccia e fare precipitare quell’uomo dal tetto.

Attesi qualche secondo. «Menomale, non è caduto.» dissi, sospirando sollevata.

«Perché sarebbe dovuto cadere?»

Non ebbi il tempo di rispondere. Il vaporetto si ormeggiò davanti a noi, pesanti corde vennero legate all’ormeggio, poi slegate. Vidi dal finestrino l’uomo entrare in una porticina laterale, calandosi con una corda. Dopodiché i motori si azionarono e l’imbarcazione discese il canal grande fino alla fermata della Ca’ D’ambra.

«Un mosaico?» chiese l’architetto, con la testa nascosta dai grandi fogli dei progetti di Luchino. Faceva girare una matita tra l’indice e il medio. Mi chiesi come facesse a girare in quel modo, a rimanere lì, come incollata da un gioco preciso di gravità, dove vi era un centro saldo dal quale il resto non poteva staccarsi. Più il movimento accelerava, più sembrava formarsi un disco grigiastro, pronto a spiccare il volo. Mio fratello, inginocchiato, stava alla destra del Signor Polo, appoggiato con la mano allo schienale della sua sedia da lavoro.

Si chinò ancora un po’ verso di lui e prese a spiegare; «Sì. Qui,» non vedevo cosa gli stesse indicando perché ero intenta a cercare sull’agenda dell’architetto un contatto che mi fosse utile per la ricerca della vera da pozzo, comunque tesi le orecchie e ascoltai la sua spiegazione; «Qui dovrebbe iniziare. Esattamente davanti alla porta di ingresso e poi proseguire per tutto il perimetro del pavimento, nella zona coperta, escludendo lo spazio vero e proprio del giardino. Non sapevo bene cosa scrivere per le misure, io non ho mai fatto questo genere di cose ma …»

«Le misure sono perfette, Signor Moretti.» rispose l’architetto fermando con il pollice il movimento della matita. Quel commento attirò la mia attenzione; la parola perfetto non l’avevo mai sentita uscire dalla sua bocca. Infatti, soprattutto per le questioni architettoniche, Polo faceva sempre commenti severi, fosse per il suo lavoro, per quello degli operai o per le nostre indicazioni. Anche se eravamo a tutti gli effetti i suoi committenti, e quindi suoi superiori, nei nostri riguardi non si comportava mai in maniera servile, né cercava di lusingarci in qualche modo. Era un vero professionista. Guardò Luchino e gli poggiò una mano sulla spalla. In quel momento, davanti ai miei occhi, divennero come un padre e un figlio. Sentì Polo commentare ancora; « Signor Moretti, non ho parole. È incredibile. Ha disegnato bozze veramente impeccabili. È come se la sua testa avesse registrato tutti gli angoli del Palazzo; in questi disegni c’è tridimensionalità. Nessuna sbavatura. Come dev’essere nei lavori di un progettista.»

Alzai la testa, per vedere la reazione di Luchino; una felicità assoluta si leggeva nei suoi occhi. Si abbandonò a terra e si sedette: «Sentire queste parole da lei mi fa essere davvero fiero di me stesso. Effettivamente, quando lavoro, vedo tutti i particolari della casa. Mentre disegno un cornicione, quello mi appare. Se mi concentro, riesco a vedere addirittura le crepe del soffitto. Mi sembra quasi di essere in due posti contemporaneamente; nel mio studio e qui. E anche questa storia del mosaico, mi è apparsa come una visione.»

«Questa storia del mosaico…» ripeté Polo e si mise a riflettere, guardando con attenzione il pavimento attuale del Palazzo. Feci lo stesso e – vedendo il terreno dissestato, le erbacce e la sporcizia accumulata a mucchio vicino alle pareti – mi chiesi come avesse potuto immaginarsi un’opera d’arte sorgere proprio là, su quel terreno desolato, cosparso d’intonaco e calce secca. Luchino attese, ansioso. Era uno di quei momenti dove Polo sembrava estraniarsi, forse entrando anche lui in quel mondo di immagini visitato spesso dagli artisti, e dal quale io ero esclusa. Dopo alcuni secondi tornò in sé, poi aggiunse; «È ambiziosa. Ma non avrei potuto prevedere cosa più utile ai nostri fini.»

«Ma sarebbe proprio un mosaico? Come quelli che si vedono nelle chiese o nelle cattedrali?» intervenni io. Non avendo parlato per tutto quel tempo gli altri si erano dimenticati che fossi lì. Mi guardarono entrambi.

«Sì, esatto. Come mai tanti dubbi? Starai mica diventando come la mamma?» Quel modo di trattarmi da parte di Luchino mi fece venire una fitta al cuore. Stavo mica diventando come la mamma? No, non sarei mai potuta diventare come lei. Solo che quell’idea mi sembrava così difficile da realizzare… Mi sembrava un sogno, un sogno costosissimo, per giunta.

«Non mi sembra che la Signorina Moretti abbia poi fatto una domanda così strana.» disse Polo, come per difendermi. «Effettivamente sarà difficile procurarsi le tessere e gli strumenti adatti. Potrebbe volerci del tempo, e molta volontà. Ma forse lei …» e si rivolse a me «… non ha ancora visto con quale velocità sono proseguiti i lavori al piano superiore.»

«Al piano superiore?» feci io, sorpresa. Riflettei che era almeno da una settimana che non passavo dai piani alti per accedere al mio appartamento.

Luchino si fece colorato in viso, e si alzò. L’aggressività con cui mi aveva trattata un attimo prima scomparve del tutto, venne vicino a me e mi disse allegro: «Per questo alcune stanze del piano nobile quando è venuta la mamma erano chiuse. Io e Polo eravamo d’accordo. Volevamo farti una sorpresa.» Mi prese per mano e mi incoraggiò a seguirlo.

Salimmo le scale di pietra bianca - sfiorai con le dita la testa di ciascuna tigre – e salimmo insieme la scalinata interna. Dimenticai il timore che Luchino mi giudicasse una vigliacca e anche il suo attacco di collera, dimenticai il mosaico e i disegni dei progetti. Poco dopo, si palesava davanti ai miei occhi uno spettacolo meraviglioso; in tre camere, tra i tanti ambienti del piano principale, la ristrutturazione era giunta al suo perfetto compimento. Letti matrimoniali a baldacchino in ferro battuto stavano sistemati nel centro di due stanze, una specchiera con la cornice rossa stava nella camera a destra, con a fianco un comò e una sedia a dondolo, nella camera a sinistra, invece, ci stava una specchiera con bordature marroni, una piccola scrivania e, anche in quella, una sedia a dondolo, proprio sotto la finestra.

«Vedi?» iniziò a dirmi Luchino «Sono le nostre camere gemelle. Differiscono solo in dettagli minimi. Tutti i mobili li ho fatti fare su misura. La tua è quella con la specchiera rossa e il comò. Apri i cassetti.»

«Oh, ma è incredibile!» mi avvicinai al mobile e mi riflessi nell’alto specchio. Aprì il cassettone e dentro ci trovai una spazzola in madreperla, uno specchio ovale da toilette, un pettine e tre bellissimi fermagli in argento con piccoli rubini. Presi in mano la spazzola, poi gli altri oggetti, uno ad uno, senza sapere come esprime la mia sorpresa; su tutti, stavano incise le nostre due iniziali, L e I, dentro la forma di un cuore alato. Portai le braccia al collo di Luchino.

«Anche i due bagni annessi sono già funzionanti. Alla cucina al piano di servizio lavoriamo da un po’ di giorni. Tra poco sarà pronta.» mi disse con veemenza mentre ancora lo stringevo nel mio abbraccio. «Conto di trasferirci finalmente qui entro la fine della settimana.»

Girai ancora un po’ per la stanza, scostai le leggere tende azzurre, annusai l’intonaco delle pareti e mi sedetti infine sul bordo del letto accarezzando le morbide lenzuola di seta. Sfilai una scarpa, poi l’altra, e mi sdraiai sul materasso nuovo; odorava di lavanda, di rose. Com’era possibile? Fino a due settimane prima, giurai che in quella stanza – ora così accogliente – non vi fossero che quattro pareti, i muri scrostati, ingialliti dall’umidità e qualche chiodo arrugginito, rimasto conficcato nel mattone come un osso sporgente.

«Luchino?» chiamai, con gli occhi semi chiusi, mentre sul soffitto guardavo i cristalli del lampadario catturare la luce, per rifrangerla in cerchi di varia misura sul soffitto. «Luchino, vieni un attimo qui.»

Ma i suoi passi mi giungevano attutiti mentre scendeva ai piani inferiori ricongiungendosi con la corte e l’architetto. È una specie di miracolo, pensai allora, come se da un giorno all’altro ogni cosa si fosse organizzata da sé per essere qui, dov’è ora. Hanno detto che volevano farmi una sorpresa, beh, ci sono riusciti. Anche i mobili, non ho notato niente, non ho nemmeno incrociato un operaio, o qualcuno, salire le scale con una sedia, o con un quadro sottobraccio. Magari il foro del pozzo ha sputato fuori – direttamente dal suo fondo misterioso, magari dall’abisso del mare - gli arredi, le lenzuola, i cuscini. Potrebbero essere usciti da lì perfino i miei oggetti da toilette; la spazzola, i fermagli … Per quanto riguarda quel fastidioso vapore umido, invece, sembra avere traslocato di sua spontanea volontà, forse per farci una cortesia perché, nonostante tutto, potrebbe aver capito che siamo ospiti rispettosi e che riserviamo a questa casa tutta la nostra delicatezza. Mi distesi su un fianco, con la testa rivolta verso il finestrone e ascoltai il rumore dell’acqua salire fin lassù, bussare al vetro, entrare con gli spifferi, fare capolino nella stanza, integrarsi al mio respiro.

Quando mi svegliai, il sole si era già rifugiato dietro le isole della laguna e attorno a me galleggiava una penombra ormai sbiadita. Mentre sostavo nel dormiveglia, venni pervasa dalla vivida impressione che il mio corpo emanasse un calore anomalo, uterino, tanto che quando mi giravo – o compivo il minimo movimento –mi sembrava di essere immersa in un fluido. Ignoravo di trovarmi nella stanza. Ero in una culla, una culla bianca, rifinita di pizzi, e stavo al suo interno coperta fin sopra le orecchie. Qualcuno, mi pareva, faceva ondeggiare il lettino, lo spingeva a destra e a sinistra, a ritmi regolari, ricreando un movimento di onde. La luce di una candela tremolava. Ero entrata, come certe volte può avvenire, in un ricordo rimosso dell’infanzia? Riuscivo a malapena a dischiudere gli occhi, quando provavo ad aprirli del tutto, sentivo il peso dell’acqua. L’acqua era sopra di me, sotto, di fianco, ricopriva tutto, ma riuscivo ancora a respirare. O forse non ne avevo bisogno, proprio come una creatura marina, proprio come un pesce. Quando mi accorsi che la culla sprofondava sempre più giù, vidi nettamente sopra di me il buco ovale del pozzo. Ecco dove stavo sprofondando, le pareti circolari si stringevano sempre di più. A un certo punto la voce di una donna, una voce che non riconoscevo, mi chiamava e io la sentivo alla stesso modo in cui si sentono i rumori quando ci si tuffa in mare. «Iole, Iole, dove sei? … Non vorrei mica disturbarla. Ah, eccola qui. Forse dorme.» Aprì gli occhi e mi tirai a sedere, dritta, sgualcendo con i piedi il lenzuolo sopra il letto.

Luchino stava di fianco a me. Si era cambiato d’abito e indossava un completo grigio, lucido, con tanto di cravatta. Dietro di lui, ancora sulla porta, c’era la donna. Mi stropicciai gli occhi per togliermi l’impressione del sonno, della discesa, del mare e della culla.

«Non avrei mai pensato ti fossi addormentata. Se no non avrei …»

«Chi è lei?» lo interruppi, senza farmi remore. Ormai era troppo tardi per comportarsi da signore. Chissà in che stato saranno i miei capelli, pensai, e mi tirai in piedi, cercando di aggiustarmi il collo della camicetta.

La donna avanzò piano fino all’interruttore vicino alla specchiera. Con un gesto che lì per lì trovai oltraggioso – era pur sempre la mia stanza – accese la luce sul comò. Una fascio aranciato illuminò la sua figura. Ci misi un attimo ad attribuire a quel volto un nome; gli occhi verdi, perfettamente allungati, con lunghe ciglia scure, il naso all’insù, la bocca tinta di rosso, tutto incorniciato da un taglio corto, alla maschietta. Florinda. Solo lei, tra tutte le donne che conoscevamo, avrebbe avuto il coraggio di tagliarsi i capelli a quel modo, come un ragazzino. Florinda Blumenthal, l’unica figlia del banchiere italoamericano Blumenthal. Una donna che, nonostante venisse da una delle famiglie più abbienti di tutta Nuova York, aveva scelto una strada tutt’altro che convenzionale. Di lei parlavano le riviste scandalistiche, le gazzette e alle volte anche i giornali; ‘’La signorina Blumenthal tenta un atterraggio di fortuna sulle dune del deserto marocchino’’ o ancora ‘’l’aviazione diventa donna, Florinda Blumenthal attraversa la manica a bordo del suo Blériot XI’’ e sulla copertina dello Scenario di questo mese, affianco a una sua foto a cavallo di un cammello ‘’Edizione straordinaria; la Blumenthal e il suo inseparabile aereo accolti tra gli sfarzi del Re del Siam, un nuovo amante per la femme fatale dei cieli?’’ Non mi sarei mai aspettata di ricevere una sua visita, da quel che ne sapevo, lei e Luchino si conoscevano appena come, d’altronde, la conoscevo io.

«Mi dispiace farmi trovare in questo stato,» bofonchiai armeggiando con la pinza dei capelli «mi dispiace di non aver potuto preparare nulla per il suo arrivo.» Sono ridicola, perché mi sto scusando? Dovrebbe essere lei, a preoccuparsi d’essere piombata qui da noi senza preavviso. Chi si crede di essere? Solo perché svolazza qui e là con il suo aeroplano crede di potersi presentare dappertutto. O forse si è scritta con Luchino? Deglutii a fatica. Guardandola meglio notai che indossava il mio abito da giorno in panno, quello che avevo acquistato con Luchino a Napoli e sotto – mi stropicciai gli occhi con le mani - portava ai piedi le mie scarpe.

«Iole non fare quella faccia!» mi esortò Luchino, scoppiando a ridere «Quando è arrivata indossava la tuta di volo. Non aveva altro e quindi ho pensato di prestarle qualcosa di tuo.»

Florinda si appoggiò allo stipite della porta, inscenando un’aria d’improvviso esausta; «Mi avete letteralmente salvata! Il mio Blériot ha avuto un piccolo guasto, cose che capitano quando si vola per più di 1000 kilometri senza interruzione. Per fortuna, per tutta la grazia del cielo, avevo saputo – le voci corrono più veloci dell’aria - che vi eravate trasferiti qui. Ho sempre pensato che suo fratello» e spostò il suo sguardo su Luchino, con le palpebre vagamente socchiuse, continuando a parlare con un forte accento americano « che suo fratello mi sarebbe venuto utile, un giorno o l’altro. Sono corsa subito da voi.»

Lusingato di ricoprire il ruolo del salvatore, Luchino annuì, poi le porse una mano. Lei la prese e girò su se stessa, mimando un indecente passo di danza. «Iole, questa ti sembra una donna che ha appena sorvolato l’India? Ci dovrai svelare i tuoi segreti, cara Florinda, e lo farai questa sera. Ti prego di fermarti con noi a cena.»

Altro che giorni e giorni senza riposo, dovevo ammettere che la signorina Blumenthal sembrava appena uscita da un lussuoso ristorante sulla quinta strada, dopo una mattinata trascorsa su una comoda poltroncina, nei saloni di bellezza più costosi di Nuova York. Quella era la cosa più irritante, non di certo la storia della cena. «Ma sì, certamente. Si deve fermare con noi.» le dissi, sforzando un sorriso accogliente. Lei mi guardò appena.

Avevo già perso la sua attenzione. Si sa che chi vive per lunghi periodi lontano dal mondo civile deve reprimere a lungo il desiderio di scambiare due parole con qualcuno, ma Florinda doveva essere rimasta per anni sola su quell’aereo, alternando permanenze in monasteri a isole deserte nel centro dell’oceano. Mentre ci aggiravamo tra i freddi saloni della Ca’ D’Ambra – ormai andavamo verso l’inverno – lei camminava in mezzo a noi e parlava, parlava, senza prendere respiro; «Sapete, l’ho scampata bella troppe volte per non essere estremamente grata alla vita per questi momenti di riposo. La Tailandia, il Siam, la Cambogia sono paesi feroci … basta un attimo di distrazione che puoi perdere il ben dell’intelletto. Il clima, le grandi foreste nere. In quei paesi non esistono primavere, non esistono risvegli. Mi è capitato di atterrare all’alba, in mezzo alla giungla, e di dovermene stare buona buona, vicino al mio Berì (così chiamava il suo aeroplano) ad aspettare che qualcuno della centrale ricevesse la mia segnalazione. Sarò stata l’unica persona nel raggio di chilometri. Mettevo in conto che potessero non trovarmi più, nascosta com’ero da ettari e ettari di fauna, flora, trappole e rocce. Laggiù gli uccelli non cantano, ve lo dico io, urlano di dolore. Gli animali muoiono, si mangiano l’un l’altro; le cortecce di certi alberi urticano, i serpenti hanno bocche piene di veleno. In quei posti capisci la singolare armonia della natura. L’armonia del massacro collettivo. Poi ti ritrovi di nuovo in mezzo alla società, a uomini che addirittura puniscono i reati minori, reati come il furto … dove persino i chassidim in America ormai si vestono come damerini. La gente si è allontanata da Dio perché non vive nel pericolo, perché non conosce la morte, la morte non c’è in America, non esiste da nessuna parte. E’ stata rimossa in tutti i modi, dimenticata … Da molti, sì, ma non di certo da me. Io ci volo, insieme alla morte.»

Luchino la ascoltava pieno di ammirazione, fremendo, spasimando, tendendosi addirittura con il corpo verso di lei quando per un attimo taceva. Avevamo superato il ponte, lasciato dietro di noi le sale desolate della Ca’ D’Ambra, le nicchie ancora polverose, i ragni acquattati negli angoli e forse anche qualcos’altro, che ancora non sapevo. Mi domandai se fossero rimaste – nell’aria di rosa e di lavanda della mia stanza – le immagini prodotte dal mio sogno e più ci pensavo, più mi convincevo di non avere mai dormito veramente. La culla continuava a ondeggiare in qualche posto e forse l’acqua usciva per davvero, a fiotti, da un’ignota fessura.

Non sapevo cosa fosse meglio; se cedere alle suggestioni della mia immaginazione o ascoltare Luchino e Florinda continuare a scambiarsi confidenze, ora seduti alla tavola imbandita. Per disperazione, scelsi la seconda.

«Mi sembra che lei sia una delle poche a poter capire cosa sto cercando di fare qui … Buttarsi in un’impresa così folle, quando avrei potuto acquistare qualsiasi altra casa, mettermi comodo. Invece, ho sentito quel brivido, quel brivido che sente lei quando vola, io penso di conoscerlo.» Finito di parlare, Luchino riempì i bicchieri fino all’orlo e propose un brindisi: «Al pericolo! Alle grandi imprese!» Alzai il calice lentamente, e il liquido scuro al suo interno rimase immobile. Sovrapposi il bicchiere alla faccia di Florinda e immaginai che la sua testa fosse esplosa e che nelle mie mani fosse rimasto un groviglio di sangue rappreso, quel che rimaneva. Mi misi a ridere. Florinda ripeté le parole di mio fratello e bevve con voluttà, gettando la testa all’indietro.

Affrancata dalla visione della sua morte, decisi di interagire con lei come se avessi avuto il potere di scaraventarla giù dalla finestra a mio piacimento, usando solo la forza del pensiero. Mi feci avanti con una domanda innocente: «Cosa ne pensa di casa nostra? Lei è una delle prime persone che la vede.»

«Vi dirò la verità;» fece subito lei «penso che più che una casa, quella sia una barca. Credete a me che di mezzi di trasporto me ne intendo! Quando sono entrata ho avuto l’impressione di varcare la soglia di un mondo segreto, più segreto di un’isola, segreto giustappunto come una nave. Una nave che naviga verso il basso, puntando dritta al centro della terra.» I suoi occhi chiari si muovevano irrequieti, passando da me a mio fratello a una velocità straordinaria. Avrei voluto sollevarla dal suolo, tapparle la bocca con il tovagliolo e lasciarla mezz’aria, ma mi trattenni. Lei si abbassò verso la tavola e iniziò sussurrando a declamare: «The loud wind never reached the ship, il vento non raggiunse mai la nave e tuttavia la nave si muoveva! Beneath the moon, sotto la luna e il bagliore dei lampi …»

Per qualche secondo un silenzio assoluto calò nella sala; il vasellame d’argento non rimandò più le immagini distorte, retrocedesse, si rabbuiò, sparì dietro un sipario di tenebra e così – allo stesso modo - fecero i quadri, la potiche cinese e i lumi spenti appesi alle pareti. Quel silenzio fece risaltare la tavola, come fluttuasse in uno spazio vuoto.

Luchino iniziò a battere le mani: «Coleridge! Lei è un’interprete straordinaria!» E mentre applaudiva con foga, il suo viso mi apparve distorto, alterato da nuovi solchi, nuove rughe, sottili venuzze rosse attorno alle pupille. Da quanto tempo non dorme? Forse i suoi problemi con il sonno sono peggiorati e io non me ne sono accorta. La storia della casa, pensai, sta diventando troppo grande, troppo impegnativa …

E proprio mentre quei pensieri mi atterrivano, lui sembrò leggermi nella mente e disse solenne; «Da buon marinaio non l’abbandonerò mai, costi quel che costi. Quella casa è la mia nave.»