Stamattina mio padre è morto. Sono felice che sia successo. Ormai non esisteva che per compiacermi e neanche ci riusciva. Un giorno so che mi troverò nella sua stessa situazione. Allora invocherò la morte, che mi prenda alle prime luci dell'alba, nel silenzio, com'è successo a lui.
Ho un amante con problemi al cuore. Anche lui è stanco di tutto, la notte non riesce a dormire. Spesso facciamo l'amore sei volte di seguito. Non mi è mai capitato con un uomo sano. M'interrogavo sul motivo del suo desiderio, dal momento che sembra assolutamente incapace di provare ancora sentimento o passione. Poi ho capito: sono il suo tentativo di suicidio. Se invocata a dovere, con convinzione, la morte risponde: manda qualcun altro a preparare il terreno al posto suo.
Io e il mio amante ci incontriamo una volta alla settimana. Così abbiamo stabilito fin dal principio, con risolutezza. Ci siamo conosciuti una sera di luglio a Roma, dove lui abita in un palazzo che chiama La Biblioteca. Ha ragione, questo palazzo non si può definire una casa, mancano i requisiti essenziali: niente cucina, un gabinetto al fondo del ballatoio. La libreria ricopre tutta la superficie delle pareti, riveste i saloni principali e il lungo corridoio che li collega, corre su per le scale, si sviluppa perfino sotto i vani delle finestre.
Ma esiste una zona franca. Un grande giaciglio di quercia, un comò e un quadro con raffigurato un bosco di betulle che sale fino al soffitto: nella camera da letto non c'è neanche una mensola, nemmeno un libro. La volta che mi ci ha portata è stata la prima in cui abbiamo fatto l'amore. Le due precedenti avevamo passeggiato per le sale della biblioteca con una tazza di tè in mano. Lui m'indicava qualche volume qua e là e mi domandava se lo conoscevo. Annuivo distrattamente. «Ma lei sa proprio tutto» diceva lui, forse beffardo.
Ho ventisette anni, ne avevo ventisei quel giorno di fine luglio in cui abbiamo fatto l'amore nella stanza graziata dalla conoscenza, senza Storia né morale. Avevo freddo mentre mi spogliava, una vaga sensazione di nausea. Mi sorpresi a tornare con la mente al giorno in cui persi la verginità, dieci anni prima. Si sentiva venir su dalla strada un vociare confuso, un coro indistinto di tutte le lingue del mondo. Sembrava che i libri parlassero tra loro dietro la porta. Allora lui aveva la stessa età di mio padre.
Quella sera abbiamo cenato insieme. La cameriera mi ha lanciato una rapida occhiata mentre posava sul tavolo una teglia di ceci e patate. Prepara nella sua cucina e poi porta con sé il necessario. Cibi poveri, come a lui piace sottolineare. Forse la donna tiene il conto, segretamente, delle sue amanti.
Dopo mangiato ha voluto prendere un foglio su cui annotare le sue condizioni. Ci troviamo d'accordo: desidera mantenere quell'appuntamento settimanale, non un giorno di più né uno di meno, scrive che non vuole ricevere gli auguri di Natale, nessuna telefonata per il suo compleanno, che «ha in gran dispetto tutte le feste religiose e civili», e che non vuole che parli a nessuno di noi, mai, per nessuna ragione.
Fa scivolare il foglio e la penna di fianco al mio piatto. Penso a quanto mi converrebbe firmare un regolamento del genere anche con Jean, a quanto ci sarebbe convenuto, perché ormai è troppo tardi.
Ho la sensazione di essere stata trascinata fino a quella tavola per forza d'inerzia, d'aver perso quell'aderenza agli eventi che ci rende protagonisti della nostra vita, di essere stata definitivamente sbalzata fuori da me stessa. «L'amore è un patto militare» dice il mio amante. «Firmi» – e io ubbidisco.
Non abbiamo mai dormito insieme. Mi parla della sua malattia con puntualità, verso la fine dei nostri incontri. Ci tiene a farmela presente come fosse una terza figura lì insieme a noi. Deve essere un abitudinario come mio padre. Entrambi hanno trascorso la maggior parte del loro tempo a scrivere mettendo a repentaglio la mente. Fuori dalla scrittura, hanno da sempre avuto bisogno che le cose stessero al loro posto per non impazzire.
A quanto pare la sua malattia è grave. Ne è affetto da tre anni. Il recente successo che hanno riscosso in tutto il mondo i suoi trattati di metafisica, a detta sua, è ciò che l'ha fatto ammalare. Non si è mai voluto sposare, non ha figli. Sui piani della libreria stanno esposte certe sue fotografie insieme a noti scienziati e poeti. Gli chiedo se gli piacerebbe se io fossi sua figlia. Mi risponde che io sono già sua figlia, che lui sapeva che un giorno, verso la fine, mi avrebbe finalmente avuta.
Da quando Jean se n'è andato io vivo come fossi morta, nella più totale assenza di me.
Mi chiedo se il filosofo non vorrebbe un'amante più gaia, più grassa, più spensierata. Quando esco dalla sua Biblioteca cammino a lungo, passo tra i tavolini vuoti di Campo de' Fiori e poi salgo verso il Gianicolo. Durante il tragitto, produco innumerevoli fantasie sull'idea che il filosofo può avere di me.
Che io sia il suo tentativo di suicidio, è una certezza. Ne ho una dimostrazione ogni volta che facciamo l'amore, dal modo in cui lui ansima dopo l'orgasmo, prima di implorarmi di ricominciare ancora. Lo vuole con un'ostinazione sospetta, la stessa che si ha quando si vuole portare a termine un piano. Il piacere non c'entra. Anche io voglio continuare, non ne ho mai abbastanza. Quando salgo su di lui mi sembra di essere in guerra, in sella a un cavallo. Tengo una mano dietro la schiena, l'altra sul suo petto. Il cuore si sente a malapena, giusto una debole pulsazione che pare non interrompersi. Forse è questa la sua anomalia.
Come tutti gli uomini che non hanno amici, il filosofo deve amare molto le donne. Sono sicura abbia avuto in passato molte altre storie simili alla nostra. È preparato. Rispetta un programma che, con ogni probabilità, ha preso forma negli anni perfezionandosi avventura dopo avventura. Io non avevo mai avuto un amante, neanche un compagno segreto. Mentre mi aggiro in accappatoio per i saloni del palazzo, m'immagino d'essere la Favorita del Re. Come lei, traggo vantaggio dalla mia invisibilità e sono crudele.
Mio padre sosteneva che è importante regolare i conti, non lasciare debiti. Potrei giurare che il filosofo abbia vissuto secondo questi principi. Ha capito che invece io non ne sono capace. Gli dispiace che non sia ambiziosa, che dagli altri non voglia niente. Eppure si è accorto di una mia singolare forma di determinazione. Mi studia con scrupolo, poi trae le sue conclusioni: «Lei possiede la veemenza di un quadro espressionista, e penso soprattutto a Schiele per le sue forme essenziali e a Soutine per i suoi toni accesi. In un modo tutto suo, lei è eroica.»
Dell'eroismo a cui si riferisce, ho una consapevolezza appena nata e finora incerta.
Avrei voluto che mi avesse conosciuta quando ancora stavo con Jean: nei tempi in cui ero più gaia, più grassa, più spensierata. Forse, all'epoca dagli altri mi aspettavo qualcosa.
Ma sarebbe stato impossibile che le nostre strade s'incrociassero con anticipo.
Il filosofo abita nella voragine che Jean ha lasciato dietro di sé e nella quale anche io sono discesa. Quando mi viene a prendere alla porta d'ingresso, invece di salire le scale dietro di lui ho l'impressione di scenderle come in un sogno in cui le direzioni di un percorso s'invertono.
Non siamo mai arrivati a darci del tu. Ormai il momento giusto è passato, impossibile riaverlo indietro. Tra noi c'è troppa differenza di età: non possiamo fare progetti né giocare a inventare un futuro. La formula di cortesia ci ricorda che, oltre all'apparente vicinanza dei corpi, tra le nostre due esistenze si stende un abisso di cui dobbiamo tenere conto.
Dopo avermi raccontato della sua malattia, ammette di non riuscire più a lavorare, di essere un uomo finito, senza più pensieri.
«Allora come passa le sue giornate?» «L'aspetto.»
Quando vado da lui mi vesto di nero. Ha una predilezione per il raso, il pizzo, per i merletti. Dice che dovrei fare l'attrice, propormi al teatro o al cinema d'essai. Mi vede bene in ruoli perturbanti: come Ligeia, Vampira, Ofelia. Mi chiede di tenere addosso le calze scure, di non avere pietà per lui.
Restiamo insieme finché il cielo rischiara perché anche io non riesco a dormire.
Nel palazzo non ci sono orologi né specchi. L'oscurità attorno al tempo e a noi stessi è totale. Il nostro mondo comprende ormai molte cose, eccetto quelle due realtà.
Le stanze della biblioteca si nascondono nell'ombra, solo un abat-jour è accesa, coperta da un drappo rosso. Il filosofo è sdraiato di fianco a me nel grande giaciglio di quercia. Mi rivolge uno sguardo supplichevole, tende la mano stravolta verso di me. Non si capacita di essere ancora vivo dopo tutto quel fare all'amore. Vorrei sussurrargli di stare tranquillo, che continueremo fino alla fine.
Non gli ho neppure detto che mio padre è morto stamattina e che io ne sono felice.